di Francesco Santoianni
Termine famigerato quello di “complottista”. Eppure, sarebbe il caso di studiare i complotti che, in alcuni casi, condannano i suoi divulgatori ad una sorte enigmatica. Come quello toccato alla giornalista americana Millie Weaver, che per avere indagato, e prodotto un video, sul cosiddetto Shadowgate è stata non solo arrestata ma licenziata dal sito Infowars, diretto dal famigeratissimo Alex Jones, considerato il “guru” mondiale dei complottisti, che, comunque, ha inspiegabilmente postato il video sul suo sito.
Sullo Shadowgate i fondatori del Progetto Kairòs - Massimo A. Cascone e Marco Di Mauro - hanno prodotto un dettagliato lungo studio di imminente pubblicazione che sintetizziamo qui in questa intervista.
In sintesi, in cosa consiste Shadowgate?
Lo Shadowgate sarebbe il ruolo tattico e operativo che il cosiddetto Shadow Government ha giocato dietro le quinte cercando di attuare un colpo di stato contro Trump. Il documentario di Millie Weaver documenta, anche tramite le testimonianze di due ex operatori definiti contractors, una ramificata struttura che - dopo aver cercato di incastrare Trump con l’indagine “Russia Collusion”, fornendo “testimoni” per le udienze di impeachment e dopo aver supportato il Dipartimento di Giustizia durante l’indagine Mueller - ancora oggi sta lavorando per sabotare la campagna elettorale di Trump.
Certo, la guerra per bande è una costante del sistema “democratico” degli USA (e non solo lì) e l’omicidio Kennedy è solo la punta dell’iceberg. Ma qui ci troveremo di fronte ad una rete criminale di una vastità e pervasività inimmaginabile: Dove società private a cui il governo appalta la gestione della difesa, dell’intelligence, della sicurezza, che, tanto per dirne una, esponenti politici che alimentano il movimento “Defund the police” o e aziende legate al Pentagono che sfruttano i dati forniti da Facebook e da altri social per colossali campagne di intossicazione mediatica soprattutto negli USA.
Ma partiamo da come si sarebbe sviluppata Shadownet.
Intanto, nel 2007, il Dipartimento della Difesa USA, basandosi sul memorandum dell’8 giugno 2007 “Interactive Internet Activities” appaltò ad aziende private l’acquisizione di dati e manipolazione delle informazioni in Rete, finalizzati anche a far scoppiare rivolte, ovviamente in paesi stranieri. Già nel marzo del 2008, comunque, veniva emendato il Foreign Intelligence Surveillance Act del 1978 permettendo così alla Section702 della National Security Agency di condurre “un'azione su larga scala di attività di sorveglianza, raccogliendo informazioni sulle comunicazioni tra persone negli Stati Uniti e persone che si trovano all'estero, con poca sorveglianza giudiziaria”. Ancora peggio veniva fatto dall’amministrazione Obama che nel 2012, “aggiornando” lo Smith-Mundt Act del 1948, autorizzava le agenzie di intelligence USA e società private ad esse collegate ad operare, anche attraverso i social, all’interno degli Stati Uniti.
Sarebbe nato così quello che viene oggi definito Shadownet un conglomerato di servizi di intelligence e contractors privati, dotati di un prodigioso supporto informatico, che fa impallidire quel “complesso militare-industriale e politico” denunciato dal presidente Eisenhower nel 1961. Shadownet, infatti, tra l’altro, detiene una risorsa di inestimabile valore: i dati sensibili delle persone, anche degli americani. E forte di questo, verosimilmente, si è messa a disposizione di quella parte nascosta dell’establishment detta Deep State.>>
Sull’omicidio di George Floyd... Secondo Millie Weaver ci sarebbe anche lì lo zampino di Shadownet?
Secondo Patrick Bergy, ex-dipendente di Dynology intervistato dalla Weaver, le Interactive Internet Activities alle quali lavorava erano operazioni di guerra psicologica sui social media incentrate su micro-obiettivi, applicazioni con cui potevi avere come bersaglio un singolo individuo, un gruppo o perfino un’intera nazione. Si cominciava con la cosiddetta L10n, localization cioè la targetizzazione di un pur piccolo gruppo sociale, studiando come «entrare nella loro testa, capire cosa mangiano, come si muovono, come parlano, che cosa gli piace, che cosa li spinge ad agire, cosa li fa infuriare» e poi usare questi dati «per imporre loro qualsiasi ideologia e qualsiasi prodotto e spingerli in qualsiasi direzione tu voglia.
Esattamente come le analisi sociologiche del passato, con l’unica differenza che tutte le variabili e le funzioni sono immagazzinate in server ed analizzate con algoritmi, in una fusione perfetta di scienze umane e ingegneria informatica, che permetterebbero di “entrare nella testa” delle persone attraverso le informazioni che loro stesse forniscono in tempo reale, che vengono classificate e inquadrate in uno schema previsionale di possibili comportamenti – o reazioni – nel caso in cui si ponga uno stimolo. E sorge il sospetto che sia proprio questo schema stimolo-reazione che hanno deciso di applicare con il caso Floyd.
Certo che l’ipotesi di una rivolta teleguidata dagli algoritmi di computer che decidono quali notizie pubblicare, tramite trolls, sui social può apparire ai più molto più di un “sospetto”. Può apparire come paranoia.
L’ipotesi di Millie Weaver è supportata da questi fatti.
Il 25 maggio 2020 avviene il brutale e plateale omicidio di George Floyd, cui segue un’ondata di rivolte che ha investito l’intero territorio federale. Sono strane, però, queste rivolte, il nesso causa-effetto non viene rispettato. Le legittime rivendicazioni contro la violenza della polizia possono portare a incendiare ettari di foreste, a bruciare le chiese e profanare simboli culturali? I saccheggi, gli atti di violenza gratuita e il razzismo anti-bianco, gli interi quartieri occupati potrebbero anche essere normali conseguenze dell'esasperazione sociale fuori controllo, ma perché le marce di squadre punitive paramilitari avvengono generalmente negli stati a guida democratica? Il sabotaggio della campagna politica di Trump e l'esasperazione della sua figura come rappresentante del suprematismo bianco possono essere considerate delle lecite conseguenze della morte di un uomo di colore? Quelle che all'inizio sono state presentate come delle legittime proteste, si sono altresì palesate essere chiara espressione di un progetto architettato fin nei minimi dettagli da soggetti che nulla hanno a che fare con il rispetto degli esseri umani a prescindere dal colore della loro pelle, ma che anzi sfruttano la radicalizzazione degli americani per portare avanti la propria agenda. È possibile interpretare questi eventi come il primo esperimento di rivoluzione colorata negli USA?
Ciò che maggiormente porta a queste domande, è la serie di contraddizioni presenti negli eventi. In particolare le possiamo così suddividere:
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