Il dibattito sull'austerità

di Alessandro Bianchi

Il dibattito economico sull'austerità assume toni sempre più accessi a livello accademico. I due filoni contrapposti di pensiero sono guidati, dal lato di coloro che continuano a sostenere la necessità di continuare con i tagli alla spesa, da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, e, per la parte di economisti keynesiani che fin dal 2010 hanno iniziato a criticare le scelte delle autorità governative occidentali, dal Premio Nobel Paul Krugman. Si tratta di una lotta accademica, con l'obiettivo di influenzare il dibattito politico intorno alla crisi epocale in corso in occidente.
Il dibattito in corso: la visione favorevole all'austerità. Nel 2010 Reinhart e Rogoff avevano pubblicato un paper che ha segnato uno spartiacque nel dibattito e, come ha scritto Krugman sulle colonne del New York Times, rappresenta il testo che ha prodotto la “maggiore influenza sul dibattito pubblico nella storia dell'economia”. Nella loro ricerca, i due economisti mostravano come le possibilità di crescita di un paese crollasse una volta che il debito avesse oltrepassato la soglia del 90% del Pil. Le scelte intraprese in Europa, ed in minor misura negli Stati Uniti, sono state spesso giustificate sulla base di questa conclusione.
Ad aprile, tuttavia, tre economisti dell'Università del Massachusetts hanno avuto la possibilità di vedere i dati e le statistiche su cui Reinhart e Rogoff avevano basato i loro assunti, fino ad allora segreti, ed hanno facilmente individuato un errore sulla loro impostazione di Excel, che rendeva priva di riferimento scientifico la soglia indicata come limite di debito possibile.
Da allora, il premio Nobel Paul Krugman ha dichiarato “distrutte le fondamenta intellettuali dell'austerità”, ma in realtà un numero cospicuo di economisti continua a trovare spunti per difendere le linee guida che stanno muovendo i governi occidentali. Ad esempio, nel suo ultimo approfondimento, il direttore del think tank Bruegel, Pisani-Ferry, ha scritto come, nonostante i notevoli errori compiuti nei programmi di salvataggio dell'euro zona, il caso dell'Irlanda dimostra come queste politiche abbiano possibilità di successo e debbano proseguire.
Reinhart e Rogoff, dal canto loro, in una lettera aperta a Paul Krugman del 25 maggio hanno duramente attaccato il “comportamento incivile” e gli errori di impostazione metodologica del collega, ma hanno però di fatto ritrattato molte delle conclusioni riportate nel 2010: ammettendo, come scritto da Krugman più volte, che non ci sia una relazione certa di dipendenza tra debiti alti e crescita (non si può sapere con esattezza chi causa chi), i due autori continuano a chiedere politiche attive nella riduzione del debito - "alti debito sono associati con una serie di rischi macroeconomici, e le autorità governative devono agire per minimizzare questi rischi" - accompagnati da una rinegoziazione dei debiti posseduti dalle banche, un tasso d'inflazione maggiore. Si tratta di un bilanciamento tra “repressione finanziaria” - imponendo minori introiti reali sui creditori – ed austerità che si avvicina di fatto alle posizioni di Krugman.
Ma, sottolinea l'Economist, la loro lettera aumenta così i lati oscuri del dibattito, che non facilitano il dibattito politico. “L'austerità che mina la crescita non aiuta, cancellare i debiti privati e spingere la crescita attraverso lo stimolo economico e la riforma dal lato dell'offerta si”, sostiene il settimanale inglese.
La risposta dei Keynesiani. Quello che Krugman enfatizza è che una disoccupazione di massa di lungo periodo rappresenta il peggior rischio esistente per una minaccia di default fiscale nel lungo periodo. Come scrive a sostegno di questa tesi, Joseph Gagnon - rispondendo in un post recente a Tyler Cowen sul ruolo dell'austerità nella crisi economica americana - “nell'attuale contesto con i tassi prossimi allo zero, l'estrema facilità di finanziare il debito con politiche fiscali e monetarie, è possibile che l'austerità riduca le future entrate dell'erario, aumentando così in modo paradossale, dati i sacrifici imposti, il debito nazionale futuro”.
Fino a quando i tagli lasciano il livello di disoccupazione alto per un periodo di tempo lungo, come è oggi la situazione in cui l'occidente rischia di trovarsi, si riducono le prospettive di crescita e le entrate potenziali per l'erario. Peggiorano poi di fatto anchele possibilità di finanziamento del debito da parte del governo presente e futuro.
Questo è il cuore della questione. Soprattutto in Europa le politiche scelte dal 2010 ad oggi hanno prodotto nella migliore delle ipotesi una irrisoria riduzione del debito ed un tasso di disoccupazione tale da minare il tessuto sociale dei vari paesi membri. Il ripensamento delle politiche proclamato è solo “semantico” e le raccomandazioni pubblicate mercoledì dalla Commissione, come ha scritto correttamente in un articolo per City AM, Raoul Ruparel, non hanno prodotto alcun cambiamento della politica economica della Commissione. “L'eurozona rimane sul suo stesso sentiero. Chiedere di porre fine all'austerità significa un processo di trasferimento dal centro – diretto, attraverso un'unione fiscale, o indiretto, attraverso un'unione bancaria o maggiore inflazione – alla periferia. E questo manca ancora del tutto", ha scritto.
Ma se l'austerità non funziona, qual è l'alternativa? Questa è la domanda che Mark Blyth si pone sul Foreign Affairs di maggio/giugno del 2013. Non certo la spesa senza controllo od il default sistemico delle economie occidentali, ma, sostiene l'economista, l'applicazione in economia del giuramento ippocratico da parte dei governi: "primo, non danneggiare".
Del resto, come ha sostenuto Richard Koo, in una delle ricerche recenti più celebri, i paesi non possono ridurre contemporaneamente i loro debiti pubblici e privati. Quello che i governi occidentali dovrebbe fare è di permettere ai privati di pagare i loro debiti, rilanciando l'economia attraverso una maggiore spesa governativa. Una volta concluso questo processo, le entrate per l'erario sarebbero aumentate e tali per iniziare a ripagare i debiti accumulati. A coloro che ritengono, attraverso l'impostazione teorica della scuola austriaca ed in particolare schumpeteriana, che si dovrebbe contrastare la spesa governativa anche se non ha costi sugli investimenti, perché l'unica fonte di crescita possibile per una società è l'innovazione privata, risponde William Janeway nel suo recente “Doing Capitalism in the Innovation Economy”, offrendo una chiave di lettura molto interessante al dibattito in corso. “Quello che rende possibile la distruzione creativa di Schumpeter è quello che definirei lo spreco keynesiano. Del resto, la Nasa non sarebbe mai potuta nascere senza le spese governative, le innovazioni recenti in bio-tecnologia si devono alla National Institutes of Health; ed anche Internet è un prodotto dalla spesa governativa”, scrive Janeway.
Il legame tra innovazione e crescita viene spesso dalla spesa pubblica, non privata e l'incapacità di generare gli “sprechi keynesiani” da parte dei governi sta minando il tessuto sociale dell'occidente.

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