Re Giorgio e i lavoratori


di Paolo Becchi
(articolo pubblicato oggi su il Garantista)
Prima di dare l'addio ai suoi sudditi, il Re della Repubblica sembra volersi assicurare che la sua eredità non andrà perduta. Così anche nel suo ultimo discorso Napolitano ha dettato l'agenda dei prossimi anni di Governo. Dai suoi vecchi cavalli di battaglia (no al voto anticipato) alla liquidazione dell'opposizione a Renzi, quella sindacale compresa. Gia', perché oggi il "compagno" che poi volle farsi Re definisce «improvvidi i contrasti sull’articolo 18».

Il sindacato, afferma ancora Napolitano, dovrà abituarsi a «rispettare le prerogative delle decisioni del governo e del Parlamento con uno sforzo convergente di dialogo anche su questioni vitali di interesse generale». Tempo, certamente, ne è' passato, dagli anni di Napolitano al PCI. Ed è' anche un fatto - innegabile - che ruolo e funzioni dei sindacati siano profondamente cambiati. Ma sarebbe stato impensabile, anche soltanto 20 anni fa, al tempo del "berlusconismo" più rampante, sentire il Capo dello Stato considerare la riforma (e, di fatto, la cancellazione) dell'art. 18 un provvedimento che soltanto dei "biechi conservatori" potrebbero contestare. Ma ecco che, oggi, gli italiani cominciano a convincersi - a forza di slides, tweet, giornali e propaganda - che i veri conservatori sono i sindacati, e che Renzi è' il "nuovo", la forza progressista.

E che progresso significa, oggi, togliere di mezzo l'articolo-chiave dello statuto dei lavoratori. L'abolizione dell'art. 18 colpisce al cuore non soltanto un diritto dei singoli lavoratori, ma - cosa, se si vuole, ancor più grave - una lunga tradizione di lotta che, oggi, viene tacciata di "conservatorismo" o, nel migliore dei casi, di rappresentare una vecchia "ideologia" ormai da dimenticare. Ma ciò che è' ideologica rischia di essere proprio la decisione di abolire l'articolo 18. Infatti se si sostiene, come molti, che esso in realtà non ha più concreta applicazione, allora la decisione di abolirlo - lungi dal produrre un qualche effetto concreto sul mercato del lavoro - è' motivata soltanto dalla volontà di cancellare un simbolo, di sbarazzarsi non di una norma che ostacola l'economia, ma dell'immagine di una tradizione. Se l'articolo 18 e' soltanto un simbolo, ebbene, perché abbatterlo?
A noi pare proprio perché è' un simbolo, e non certo per improbabili ragioni di politica del lavoro, di "flessibilità". Perché - ed è' questo il senso ultimo del l'eredità di Napolitano - il "nuovo corso" apertosi nel 2013, ed ora perfezionato da Renzi, intende essere il tempo non della fine delle ideologie, ma - è' ben diverso - "dell'ideologia della fine delle ideologie". Il patto del Nazareno, la fine dell'opposizione destra-sinistra, segna la grande finzione di un'Italia pacificata, stretta intorno alle larghe intese e ad un "governo di tutti gli italiani" che a Renzi sembra finalmente riuscito. Il prossimo passo sarà quel "partito nazionale" che il premier ha già annunciato e che altro non è' se non il partito unico realizzato non con la violenza dei manganelli (quella non serve più), ma con la simpatia "social" e la benedizione degli eurocrati e degli alleati germanici (quelli servono ancora, invece).
Napolitano, da parte sua, e' stato ed è il garante, il riferimento ultimo di questo progetto, di una Terza Repubblica che avrà in Renzi il suo protagonista, le opposizioni ridotte a "bande di eversivi", come le ha già apostrofare il Capo dello Stato, i sindacati percepiti come un ristretto circolo di conservatori (una specie di Rotary dei metalmeccanici). I suoi ultimi discorsi, non sono dunque che le piccole istruzioni ad usum delphini. Le quali - siamo certi - verranno scrupolosamente rispettate.

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