IN MEMORIA DI ALFREDO TRADARDI. VOCE ETICA ED ERETICA DEL NOSTRO TEMPO

di Enrico Bartolomei*

Ciao Alfredo.


Ci siamo conosciuti perché sono stato un bersaglio della tua celebre verve polemica. È stato durante la campagna per il diritto allo studio e alla libertà accademica dei palestinesi, lanciata nel 2010, che secondo te avrebbe distolto l’attenzione dal tema centrale del boicottaggio delle università israeliane. Avevi capito fin da subito che la campagna di boicottaggio disinvestimento e sanzioni (BDS) sarebbe stata un’arma formidabile per il movimento di co-resistenza, come dicevi, alla Palestina, ed eri stato uno dei primi a raccogliere l’appello palestinese al boicottaggio.


Eravamo distanti, generazioni, percorsi, attitudini diversi. Ma stabilimmo un contatto. Mentre stavi ultimando la traduzione di Sposata a un altro uomo, in cui Ghada Karmi esponeva la tesi in favore di uno stato laico e democratico nella Palestina storica, io svolgevo la ricerca di dottorato sull’idea medesima di Stato unico nel pensiero della resistenza palestinese. Dopo aver curato l’edizione italiana di La pulizia etnica della Palestina di Ilan Pappé, nel 2008, quello di Ghada Karmi era un’altra opera fondamentale per comprendere la natura della questione palestinese e del sionismo. Insieme alla tua compagna di affetti e di lotta, Diana, negli anni a seguire avreste dato un prezioso contributo di informazione e di produzione culturale sulla Palestina, per certi versi insostituibile, di cui le generazioni di giovani attivisti che verranno dovranno farsi gelosi custodi.

Ci avvicinammo frequentando un lessico comune: colonialismo, pulizia etnica, decolonizzazione etica, stato unico. Capimmo con gli anni che stavamo camminando nella stessa direzione. E che serviva formare adeguatamente chi voleva dedicarsi all’azione sul campo. Mi invitasti al tuo primo corso di formazione per attivisti. Nell’email di invito scrivesti che occorreva “ricominciare da zero”. Nel settembre 2013 un’altra tappa decisiva: il seminario di riflessione critica a venti anni dagli accordi di Oslo. Concordavamo nel giudicare quegli accordi una capitolazione totale, e nel considerare il cosiddetto “processo di pace” – la pace del vincitore, beninteso - come una enorme copertura per il processo continuo di colonizzazione. Da qui la critica dura e senza mezzi termini al “campo della pace” e alla soluzione “due popoli due stati”, illusione figlia di una interpretazione che considera la guerra del 1967 come l’inizio del conflitto in Palestina. Il nodo cruciale, ripetevi, è il ritorno dei profughi, è il ‘48. Non è l’occupazione; è il sionismo il problema.


Era urgente cambiare paradigma. E da questa necessità nacque l’idea di Gaza e l’industria israeliana della violenza, che hai portato in centinaia di posti in Italia, con instancabile determinazione, in cui si introduceva il colonialismo di insediamento come paradigma interpretativo fondamentale per capire la vocazione genocidaria del sionismo. E poi l’ultima grande fatica di Esclusi, un volume interamente dedicato al campo di studi del colonialismo di insediamento, che consente di allargare lo sguardo oltre i confini mediorientali per analizzare le analogie tra l’esperienza sionista in Palestina e gli altri colonialismi di insediamento a livello globale.


Sapevo che ti stava costando una fatica enorme il lavoro di curatela, ma lo hai portato a termine, nonostante gli acciacchi e la stanchezza. Trovasti addirittura le forze per redigere, a pochi giorni dal tuo ultimo ricovero, l’errata corrige del volume, a testimonianza del rigore e della dedizione totale che mettevi nelle cose.


È la chiusura del cerchio. E anche qui, la storia dirà che hai visto lontano.


Eri preoccupato in questi ultimi anni: dicevi che questo paese stava attraversando uno dei periodi più oscuri della sua storia: i tentativi di demolizione della Costituzione nata dalla resistenza, le nuove forme di fascistizzazione del paese. L’ultima volta che ti ho sentito, eri esausto, ma determinato a riprendere le presentazioni il prossimo autunno, come sempre, in trincea, da una parte all’altra dell’Italia, davanti a 100 o a tre persone, senza tregua. Non capivo da dove venisse tutta quella energia, quella travolgente passione, che ha travolto anche me. Forse dal medaglione magico che avevi al collo. Forsa dalla tua intransigenza morale, dalla tua radicale scelta di campo, dall’appartenenza a quella minoranza “etica ed eretica”, come dicevi, che praticava i tre principi sacri della non-violenza, non-menzogna e non-collaborazione col male, che non lasciava spazio all’ambiguità intellettuale, al compromesso morale e all’opportunismo politico.


Non posso che guardare con profondo rispetto e ammirazione alla vicenda di uomo che ha speso la sua intera esistenza nella lotta al fianco degli oppressi, dei mondi offesi, degli esclusi.


Alla fine, hai scelto il 25 aprile per andartene. Tu, figlio di partigiani.


Io dico che hai vinto Alfredo.


Hai combattuto la più grande battaglia che un uomo possa mai combattere: quella per la coerenza e per l’onestà morale e intellettuale, e l’hai vinta. Riposa in pace partigiano.


*Dottore di ricerca all’Università di Macerata, si occupa di pensiero arabo contemporaneo e di storia della Resistenza palestinese

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