Strage di Capaci. Pino Arlacchi: L'Eredità di Giovanni Falcone ed i rischi del presente

“Potrei fare a meno di tanti colleghi, ma non potrei mai fare a meno di Pino Arlacchi”
Giovanni Falcone

Il 23 maggio del 1992, con un terrificante attentato, la Mafia mise fine alla vita del giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Pino Arlacchi, in esclusiva per l'AntiDiplomatico, amico e strettissimo collaboratore di Falcone, racconta, fuori da ogni retorica, la figura del Giudice che ha segnato ed ancora rappresenta un simbolo, un faro nella lotta alla mafia.


Di Pino Arlacchi

23 maggio 2020


L’anniversario di Capaci non merita di annegare nella retorica. I valori colpiti il 23 maggio del 1992 con l’assassinio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e della loro scorta, sono oggi perfettamente attuali. Non solo in Italia, ma nel mondo.

Ma in che cosa consiste l’eredità di Falcone, la ragione principale per la quale lo ricordiamo a quasi trent’anni dalla sua scomparsa?

Sono stato il suo più stretto collaboratore e amico al di fuori dell’ambiente giudiziario, e provo qui ad esporre i miei pensieri sul tema.

La memoria di Falcone è viva non solo e non tanto per le doti di coraggio e di umanità che lo contraddistinguevano. Esistevano allora molti altri uomini di legge coraggiosi ed onesti, che
esercitavano la propria professione con scrupolo ed imparzialità, combattendo per ciò stesso il malaffare. E Falcone era senza dubbio uno di loro, un servitore della legge senza pretese di
straordinarietà. Chi lo ha conosciuto davvero sa quanto «normale» e discreta fosse la persona.

No. La differenza tra Falcone e tutti gli altri stava in un talento professionale al confine con la genialità. Non si spiegherebbe altrimenti la solidità dei processi da lui istruiti, tutti conclusisi con condanne severe a feroci capimafia.

E non si spiegherebbe il fatto che le misure antimafia da lui propugnate siano diventate lo standard mondiale in materia. E sono fiero di aver dedicato gran parte del mio mandato all’ ONU a realizzare il sogno più grande di Giovanni Falcone: far nascere un trattato universale antimafia.

Quello firmato proprio a Palermo nel dicembre del 2000 da 124 paesi.

Tra il 1982 - data dell’assassinio Dalla Chiesa e del varo della prima legge di reale contrasto della mafia - e la Conferenza di Palermo, l’Italia è stata il laboratorio più avanzato della lotta contro la criminalità transnazionale. Assieme a un gruppo di colleghi e collaboratori che hanno poi proseguito quell’impegno, Giovanni Falcone ha creato una serie di tecnologie giuridiche
d’avanguardia dimostratesi di micidiale efficacia ovunque esse siano state applicate.

I pool antimafia, la confisca dei beni, la protezione dei testimoni, l’abolizione del segreto bancario, la specializzazione delle polizie e l’unificazione degli spazi giuridici sono alla base della
Convenzione di Palermo e sono oggi il linguaggio comune delle polizie e dei pubblici ministeri di tutto il pianeta.

Concepire tutto ciò nella realtà di 30-40 anni addietro, quando ancora molti si chiedevano se la mafia esistesse davvero, e quando tutti gli altri paesi europei guardavano all’Italia come
l’ammalato cronico del continente, è equivalso ad una piccola rivoluzione. Diventata poi una medaglia del nostro paese. Medaglia pagata a caro prezzo. E uno dei prezzi più cari è stato proprio il sacrificio di Giovanni Falcone.


E la mafia? Come ha reagito Cosa Nostra al post-Capaci?

La risposta dello Stato alle stragi del ‘92 e il ricambio politico avviato da Mani Pulite hanno costretto la mafia dentro una posizione difensiva che dura tuttora. Cosa Nostra è riuscita a
sopravvivere alla grande offensiva del post-Capaci e post- Via d’ Amelio (l’assassinio di Paolo Borsellino), ma ha subito una sconfitta di storiche proporzioni.

Le mafie non sono scomparse, evvero, ed affliggono ancora larghe zone della Sicilia e dell’Italia del Sud. Ma sono state costrette a ridurre al minimo l’ uso della violenza, e ad inabissarsi nella società civile e nella politica regionale e comunale. I boss si sono integrati quasi ovunque nelle reti della corruzione politica dominate dai gattopardi locali.

Non sono più in grado di far cadere i governi, ma hanno moltiplicato le estorsioni, i racket ed il controllo delle risorse degli enti pubblici.

Queste attività non hanno però compensato la diminuzione delle entrate del mercato internazionale della droga e l’esclusione dai nuovi business mondiali. I fatturati criminali di oggi
sono una modesta frazione di quelli dell’epoca d’oro del malaffare.

Perché la mafia riacquisti quella sicurezza in se stessa necessaria per rientrare a pieno titolo nei piani alti del palazzo occorrono tre cose.

In primo luogo occorre una iniezione straordinaria di risorse paragonabile a quella ottenuta a metà degli anni 70 con il monopolio della rotta transatlantica dell’eroina. Ed è possibile che
l’occasione venga fornita dall’ iniezione di spesa pubblica post- COVID e dai fondi europei per la ricostruzione.

In secondo luogo occorre una spallata agli apparati investigativi antimafia che abbiamo costruito assieme a Falcone lungo gli anni 90. E non vedo segnali rilevanti in questa direzione.

Ma ciò che più conta è l’atteggiamento del governo centrale verso le mafie. I colpi subiti dalla mafia siciliana dopo il 1992 in poi sono stati quasi letali. La Commissione regionale e le
Commissioni provinciali di Cosa Nostra sono in disarmo da decenni. La pressione del popolo mafioso sulla società è rimasta pervasiva, ma non si è formata una nuova leadership. Una «testa» capace di ribaltare l’attuale subordinazione alla politica. Se dalla politica corrotta arrivassero nuovi segnali di incoraggiamento, Cosa Nostra potrebbe abbandonare il basso profilo e ritornare alla ribalta.

Se ciò avvenisse senza adeguata opposizione, vorrebbe dire che Capaci non ci ha insegnato niente.


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