Come funziona il "marketing di guerra": il caso Iran


Partendo dal recente conflitto scatenato contro la Repubblica Islamica dell’Iran, Sara Reginella, autrice e documentarista, analizza con esemplificazioni attuali, alcuni meccanismi della propaganda e del “marketing” di guerra, approfonditi anche nel suo ultimo libro “Le guerre che ti vendono”, pubblicato ad apertura della collana “Orwell” curata da Luciano Canfora per Dedalo Edizioni.




A una settimana dall’annuncio del cessate il fuoco del 24 giugno, successivo all’attacco militare di Israele all’Iran, facciamo alcune considerazioni sui metodi con cui ha agito la propaganda di guerra all’interno del conflitto.

"Donna, vita, libertà" aveva dichiarato nei giorni scorsi Benjamin Netanyahu, in un appello all'Iran, dopo uno degli attacchi di Israele.

Oltre agli slogan del primo ministro, non erano poi mancate incitazioni al popolo anche da parte di figure come il Premio Nobel Ebadi: “In Iran il regime è indebolito, ora il popolo si sollevi per ottenere la democrazia”.

Ebbene, adesso che nessuna nuova democrazia occidentale è stata esportata a suon di bombe nella Repubblica Islamica, riflettiamo sull’ennesimo conflitto che l’Occidente ha provato a legittimare e dunque a vendere, attraverso quella serie di meccanismi comunicativi e mediatici connessi al marketing di ogni guerra.

Di fatti, per alcuni aspetti, il modello comunicativo utilizzato dal primo ministro Netanyahu, non è così divergente da quello utilizzato ai tempi delle rivoluzioni colorate o della Serbia di Otpor, allorquando, dietro alle apparenze salvifiche di slogan abusati dagli esportatori della democrazia, si celavano obiettivi occulti che si fanno strada tutt’ora attraverso meccanismi il cui esito si connette a guerra e distruzione.

Tale distruzione avanza anche attraverso processi di banalizzazione dei conflitti e tramite la diffusione di bufale rilanciate con estensione planetaria: dalle inesistenti armi di distruzione di massa in Iraq, alle immaginarie fosse comuni in Libia fino alla più recente e fantomatica atomica iraniana, in realtà, mai pervenuta.

Di questi e altri meccanismi connessi al marketing di guerra, racconto anche nel mio ultimo libro “Le guerre che ti vendono”, scritto nella convinzione che vendere un conflitto non sia poi così diverso dal vendere un qualsiasi altro prodotto di mercato, attraverso un’azione serrata sulla sfera pulsionale ed emozionale del, chiamiamolo pure, consumatore.

Dunque, se un “prodotto” come la guerra diventa glamour e di tendenza, esso avrà una migliore commerciabilità.

Lo sa bene il presidente statunitense che nei mesi scorsi aveva rilanciato un video perverso, realizzato con intelligenza artificiale, in cui insieme al presidente israeliano, sorseggiava drink a bordo piscina, in una Gaza post genocidio in cui sorgevano resort di lusso e statue d’oro.

Lo sa bene anche quell’azienda israeliana che a fine 2023 pubblicizzava un crudele progetto coloniale dal titolo «Prendi la tua villetta a Gaza,» mostrando immagini di macerie sulle quali erano rappresentati i disegni tecnico-architettonici di come le stilose villette coloniali sarebbero risultate.

Lo sanno bene anche gli ideatori dei servizi fotografici che furono realizzati per il patinatissimo Vogue Ucraina e che ebbero per protagonisti i cadetti dell’Accademia militare ucraina, immortalati come modelli, con una davvero poco credibile aria scanzonata.

Questi sono solo alcuni esempi che faccio nel mio libro, in cui spiego come sia possibile, su scala globale, alimentare disumanità e anestetizza la ragione.

Perché se il profilo più nero del marketing è quello della guerra, è nella conoscenza dei suoi meccanismi che si trova l’antidoto che la ripudia.

E noi continueremo a ripudiare la guerra.

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