di Cristiano Sabino
L’insorgenza d’estate
Agosto 2024, tutta la Sardegna si riempie di punti raccolta firme per la proposta di legge di iniziativa popolare Pratobello 24 che, utilizzando l’articolo 3 dello Statuto, si propone di arginare e disciplinare l’invasione di mega impianti di produzione energetica da fonti di energia rinnovabile.
Servivano per legge diecimila firme, ma fin dai primi giorni appare chiaro che si andrà ben oltre quell’obiettivo. Le immagini di piazza Castello a Sassari al banchetto organizzato da Sa Domo de Totus, immediatamente dopo ferragosto, fanno il giro della Sardegna. Si viaggia al ritmo anche di mille firme a banchetto e gli interminabili serpentoni umani che si formano davanti ai gazebo allestiti dai volontari sfatano tanti luoghi comuni sull’indolenza e sulla letargia dei sardi e al contempo scatenano una reazione nervosa e spesso scomposta da parte di settori politici che fino a quel momento avevano minimizzato, ridicolizzato o preso sottogamba la questione.
La raccolta firme per Pratobello 24 non è ancora terminata ma è già diventata un fenomeno sociale e storico, rappresentando una nuova importante richiesta di democrazia e partecipazione che va in direzione esattamente opposta a quella dello svuotamento dei poteri decisionali delle democrazie occidentali. E il fatto più interessante è che questa forte spinta al potere popolare non nasce in una città metropolitana, in una regione ricca del nord Italia o del nord Europa, ma in una terra marginale e ritenuta politicamente servile e pacificata come la Sardegna.
Ma la classe dirigente, sia quella politica che quella culturale, non si sono dimostrate ancora una volta attrezzate a leggere la novità rappresentata da questo importante fatto storico, passando dal rifiuto alla demonizzazione o a delineare strategie politiche e mediatiche finalizzate a riassorbire questo importante ed inedito urto sociale. Perfino settori interni ai comitati contro la «speculazione energetica» hanno compiuto l’errore di identificare le immancabili ed oggettive strumentalizzazioni presenti nel movimento di raccolta firme, con l’anima reale del processo, privandosi della possibilità di mettersi alla testa di uno dei più importanti episodi di democrazia diretta della storia della Sardegna moderna e recidendo quella che Gramsci chiamava «connessione sentimentale» tra dirigenti e diretti, diventando in tal modo strumento (inconsapevole o consapevole non fa alcuna differenza) di una vera e propria «rivoluzione passiva» finalizzata a fare rientrare nei ranghi del dominio coloniale questa straordinaria insorgenza popolare.
Ed è proprio questa strategia anestetica finalizzata a disinnescare la mobilitazione rappresentata dal movimento Pratobello 24 che analizzeremo in questo articolo, partendo dall’ideologia della «moratoria» e delle «aree idonee» adottata dai ceti dominanti per spegnere il grande fuoco civile che ha divampato nell’estate sarda del 2024, fino ad affrontare la narrazione passiva più insidiosa di tutte, quella dell’unità a tutti i costi e il rifiuto del conflitto e della dialettica rappresentata dall’appello del prof. Bachisio Bandinu.
Le «aree idonee»
È iniziata la questua. Con il cappello in mano, la governatrice della Sardegna Alessandra Todde, in tutta fretta, sta facendo visita ai sindaci alla ricerca delle famose “aree idonee”, cioè quelle aree dove poter dare licenza di costruire enormi impianti industriali di produzione energetica (https://www.youtg.net/top-news/59778-todde-sull-assalto-eolico-le-uniche-aree-idonee-sono-quelle-industriali?sfnsn=scwspmo&fbclid=IwY2xjawFFpl9leHRuA2FlbQIxMQABHXxk6LEbNHCDZfMg5cLohfT4AZx9R-Xc7zQeSM6JqlTBh35TKIWEOvUiIA_aem_zd2lZ1Obt3eLFdEa6Lu4Fw ). Le «aree idonee» vengono presentate come la soluzione per salvare la Sardegna dagli «speculatori», ma da questa narrazione che grossolanamente cerca di ricucire lo strappo con una buona parte del popolo sardo mobilitatosi contro la colonizzazione energetica – come scrive Ivan Monni su S’Indipendente – «manca il pezzo fondamentale, quello più importante che non è passato. Su questa rubrica ci siamo sgolati per far passare il messaggio che “Aree idonee” significa grandi impianti, cioè finanziare con soldi pubblici il grosso capitale, per giunta non sardo. Soldi che prenderanno il mare sardo» (https://www.sindipendente.com/blog/a-proposito-dellappello-allunita-di-bachisio-bandinu-simprenta/ ).
I grandi impianti – va ricordato e sottolineato ogni volta – non produrranno energia per i sardi, a beneficio dei sardi e sotto il controllo delle comunità e delle istituzioni sarde, ma saranno per lo più direttamente articolazioni di un gigantesco sistema di elettrificazione completamente nelle mani delle multinazionali dell’energia, spesso e volentieri le stesse che gestiscono per conto dello Stato anche carbone e gas a cui – per dinamiche di geopolitica e di conflitti bellici (ed energetici in corso) – le rinnovabili andranno ad affiancarsi, senza l’auspicata sostituzione.
Il punto non è solo la quota (minima) mai chiarita dei 6,2 GW di energia rinnovabile da realizzare entro il 2030 che il Governo centrale ha deciso di assegnare d’ufficio alla Sardegna, senza mai spiegare i criteri che vedono regioni ben più popolose con una quantità di GW ben minore. La Toscana per esempio dovrà realizzare 4.250 GW con più del doppio degli abitanti della Sardegna (e il sole proverbialmente in Toscana non manca!).
Il punto non è neppure la questione – che pure appare cruciale – che a questo target non esiste un tetto, per cui le assicurazioni sul fatto «se alla Sardegna sono richiesti 6,2 GW, e sono stati presentati progetti per 57,67 GW, occorre subito chiarire che il 90% di quei progetti nessuno ci obbliga ad approvarli e quindi non vedranno mai la luce» – come ha recentemente dichiarato sui suoi social Pasquale Lubinu, sindaco di Ossi ed esponente della lista collegata alla maggioranza del “campo largo” Sinistra Futura – appaiono più come una sapiente strategia retorica che come analisi realistica del pericolo che stanno correndo i sardi di vedere trasformata la propria terra in una gigantesca piattaforma energetica ad uso e consumo esterno.
La vera questione – ed è questo il tema che vorrei trattare tra l’organizzazione frenetica di un bacchetto di raccolta firme e l’altro – è la straordinaria e storicamente inedita richiesta di sovranità che emerge dal movimento contro la «speculazione energetica», cioè l’esigenza diffusa di diventare legislatore collettivo, espressa da una buona parte del popolo sardo, attraverso la proposta di legge di iniziativa popolare Pratobello 24.
Pratobello 24. Nascita di un movimento politico neosardista?
Nella storia c’è un principio che si chiama «eterogenesi dei fini». Sembra difficile ma in realtà non lo è. Spesso, si compie un’azione, si mette in cantiere un progetto, si attua un piano sperando di raggiungere determinati obiettivi, ma poi la realtà sfugge di mano e le cose vanno diversamente da come ci si aspettava, a volte persino all’opposto. Basterebbe questa banale consapevolezza dei processi storici (e della vita stessa degli esseri umani) per scardinare tutte le corbellerie che sono state dette e scritte sulla proposta di legge popolare Pratobello 24 e sul movimento innescato dalla raccolta firme (“è una legge scritta da Mauro Pili”; “c’è il gruppo Zuncheddu dietro”, “è un piano della destra per far cadere Todde e tornare a governare la Regione”).
Se anche tutte queste cose fossero vere, cionondimeno non verrebbe a mancare la portata popolare, democratica e rivoluzionaria dello straordinario movimento nato con l’organizzazione dei banchetti di raccolta firme.
Parlo di Sassari perché è la realtà in cui sto lavorando per la campagna “Pratobello 24” e fra l’altro si tratta di un caso eclatante, dove la partecipazione ha raggiunto vette inimmaginate di adesione popolare, con doppie file di decine di metri composte da gente di tutti i tipi, ordinate e pazienti, per ore e ore sotto il sole, a ridosso di ferragosto.
Mediamente si tratta di persone con grande senso civico, che non si limitano a firmare e andare via, ma vogliono capire, entrare nello spirito della legge che stanno firmando, esporre il proprio punto di vista ai volontari di Sa Domo de Totus (l’associazione promotrice della raccolta a Sassari) e ai consiglieri e agli avvocati che autenticavano le firme.
Per dare il senso di questo successo va segnalato che, solo a Sassari, Sa Domo ha raggiunto ad oggi (scrivo a dieci giorni dalla fine della scadenza) quasi diecimila firme, cioè il numero necessario e sufficiente per portare la legge in Consiglio. Un caso credo unico nella storia repubblicana!
In un grande movimento popolare c’è sempre tutto e il contrario di tutto. Basta andare a rileggersi i celebri Cahiers de doléances che preparavano i lavori degli Stati generali a Parigi del 5 maggio 1789 e che costituirono la ribollente base politica popolare delle rivendicazioni che poi andarono a costruire le fondamenta della Rivoluzione Francese. Anche nel movimento Pratobello 24 troviamo tutto e il contrario di tutto, incertezza, confusione, intuizioni moderne mescolate a superstizioni di ogni genere.
È piuttosto normale che ciò accada, l’importante è che dalla massa apparentemente indistinta di notizie corrette e anticaglie del passato, esista la capacità da parte degli intellettuali di estrarre il succo progressivo e rivoluzionario che anima questo movimento. E il senso ultimo della mobilitazione non è, come vorrebbe qualche ambientalista da cortile o improvvisato “esperto” al soldo di qualche banca d’affari, la difesa del paesaggio o la negazione del cambiamento climatico, ma una grande, chiara e forte rivendicazione di sovranità e democrazia da parte dei sardi. Perché se si mette in moto un popolo che si credeva sopito, atomizzato e dormiente, se si formano code umane a dei banchetti solo per apporre una firma e scambiare due parole con chi condivide una preoccupazione e una visione della terra, del futuro, della democrazia, allora vuol dire che la cosa non può essere facilmente derubricata a movimento effimero, a strumentalizzazioni di una certa stampa, a giochetti del potere e del palazzo.
Ignorare questo elemento fondamentale significa ignorare la realtà e dissociarsi dalle corde profonde di un popolo che ha alzato la testa.
Gli elitisti e i nemici di Pratobello24
Vederla così significa insomma essere elitisti, avere cioè la credenza che nella storia tutto ciò che accade è sempre orchestrato dalle élites e che il popolo, il demos, le persone, i subalterni, stiano sempre alla finestra, al massimo facciano una fila per mettere una firma ad un destino e una storia scritta da altri.
La teoria delle élites è stata elaborata da due economisti e filosofi italiani che si chiamano Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto (si parla di scuola elitista italiana). Mosca propose il "criterio delle tre C" per descrivere il funzionamento dei detentori del potere:
Consapevolezza; i membri dell’elite sono coscienti delle loro posizioni politiche, sociali ed economiche e della condizione di frammentazione in cui invece versa la maggior parte del popolo;
Coesione; a differenza delle masse, i membri dell’elite sanno allearsi e organizzarsi;
Cospirazione; I membri dell’elite sanno dissimulare il loro essere elite e riescono a far passare il messaggio che fanno il bene della massa, del popolo, (oggi si direbbe dei cittadini, della gente).
L’aspetto interessante è che oggi la teoria elitista, nata come formidabile strumento di demonizzazione delle istanze socialiste e democratiche all’inizio del Novecento, costituisce la base ideologica di quella che si definisce “sinistra”, dell’ecologismo pseudo-progressista, degli intellettuali che si collocano nel campo antifascista e anti populista. In Sardegna abbiamo numerosi rappresentanti dell’eletismo: si va dai movimenti politici come M5S, Sinistra Futura, Demos allo pseudo ambientalismo e a ciò che rimane di FFF, con il prezioso megafono (o con il silenziatore) de La Nuova Sardegna e Il Manifesto che funziona come megafono italiano.
L’aperta ostilità della cosiddetta sinistra dimostrata davanti all’insorgenza rappresentata dal movimento popolare Pratobello 24, sta a dimostrare la perdita non solo della bussola politica di una parte che ormai vive di ricordi e icone sbiadite, occupandosi più di celebrare Berlinguer e Che Guevara che di difendere la propria terra e la propria gente dagli assalti speculativi delle multinazionali, delle banche d’affari e dalle pratiche coloniali o semi-coloniali dello Stato centrale, ma anche e soprattutto delle radici profonde e valoriali che dovrebbero costituire l’essere sinistra.
Ora proprio il termine “sinistra” sta a significare una collocazione radicale o conservativa rispetto ad una determinata questione. Così, un tempo, era di sinistra chi, davanti alla questione di rivendicazione del potere operaio, sosteneva la lotta di classe nella richiesta di maggiori spazi di potere. Invece era di destra chi sosteneva che il problema operaio sarebbe stato risolto con ritocchi dall’alto, effettuati dalle mani sapienti di chi tesseva le fila, con riforme graziosamente concesse dal potere costituito, con il paziente lavoro delle élites, per migliorare la condizione operaia senza mettere in discussione il potere di quelle stesse élites. Mentre la sinistra si presentava come partigiana e affine alle classi subalterne, la destra adottava una retorica diversa, formalmente universale, anche se ovviamente puntava a garantire gli interessi di determinati gruppi di potere e portatori di interesse, ma per farlo aveva la necessità di rappresentare se stesse come «interesse generale», «società civile», «patria». La sinistra era insomma di parte (dalla parte delle classi subalterne e sfruttate), la destra invece, pur rappresentando interessi di parte (sostanzialmente delle oligarchie economiche), si presentava come classe politica al servizio della totalità della “nazione”.
In Sardegna queste due categorie – del resto già logore da tempo – sono oggi messe ulteriormente a dura prova dalla questione sollevata dalle comunità che si stanno compostamente ma decisamente ribellando a difesa del proprio territorio, dell’esercizio sovrano sulle proprie terre, sul proprio vento, sul proprio mare. Le comunità sarde, con buona pace dei teorici della mitologia del «pocos, locos y maleunidos», stanno infatti ponendo un gigantesco problema di potere e lo stanno facendo come popolo e come nazione, esattamente come nel Novecento lo hanno posto la classe operaia e la classe contadina e negli anni Sessanta e Settanta, gli studenti e il movimento femminista.
Per capire meglio come in Sardegna le categorie «destra» e «sinistra» stiano saltando per aria sulla dicotomia energetica, ci serve rifarci alla teoria di Vilfredo Pareto che spiega, con grande efficacia, come in ogni epoca esistono delle modalità con cui una elite si erge sulla massa del popolo per dominarlo:
«La conquista della ricchezza presso i popoli commercianti e industriali, il successo militare presso i popoli bellicosi, l'abilità politica e spesso lo spirito d'intrigo e la bassezza di carattere presso le aristocrazie, le democrazie e le demagogie, i successi letterari nel popolo cinese, l'acquisizione di dignità ecclesiastiche nel medioevo [...], sono altrettanti modi coi quali si effettua la selezione degli uomini»
La citazione è tratta dall'opera "Manuale di economia politica". Questo libro, pubblicato per la prima volta nel 1906, contiene molte delle sue riflessioni sulle dinamiche economiche e sociali, compresa la teoria dell'elite e la selezione degli uomini all'interno delle società.
Nel Capitolo XII, intitolato "Del massimo dell'utilità per una collettività" all'interno della sezione sulla "Circolazione delle élite", Pareto esamina come diverse società e culture abbiano differenti criteri per la selezione delle persone di successo. La citazione evidenzia come la «conquista della ricchezza», il «successo militare», l' «abilità politica», e altri criteri variano a seconda del tipo di società e delle sue priorità dominanti.
In luogo della «destra» e della «sinistra», la lotta contro la presente penetrazione coloniale da una parte sta facendo emergere il vero volto delle élites al comando (di destra, di centro e di sinistra), dall’altra una nuova possibilità di azione nell’antagonismo ad esse che, per forza di cosa, si riconnette all’impostazione storicamente determinata dalle componenti più dirompenti del movimento sardista e neosardista. In questa concezione le comunità sarde diventano un soggetto subalterno cosciente di se e dunque capace di esercitare rotture storiche e rovesciamenti rivoluzionari.
La «speculazione energetica» come nuova «abolizione del feudalesimo»
A questo punto dobbiamo domandarci quale sia il criterio di selezione delle élites in Sardegna e quali sono le strategie che queste mettono in campo per conquistare e mantenere il potere.
La risposta ovviamente richiederebbe un’analisi che qui non è possibile svolgere sulla funzione delle classi dirigenti sarde nel Novecento e sul ruolo giocato dagli intellettuali nella realizzazione del cosiddetto “Piano di Rinascita”, ovvero quell’insieme di provvedimenti economici e legislativi che portarono l’industrializzazione in Sardegna, in applicazione (e ovviamente, per molti versi, in contraddizione) dell’articolo 13 dello Statuto Autonomistico.
Ma, in sintesi, possiamo tranquillamente rispondere che le élites sarde svolgono ormai da diversi decenni una funzione passiva, utilizzando il mito della modernità e del progresso variamente declinati e applicati ai diversi contesti, come clava sociale e politica per potersi imporre in maniera antidemocratica sulle comunità sarde, sfruttando però tutti gli strumenti che la democrazia repubblicana mette a disposizione, come per esempio la macchina burocratica della Regione.
In nome della modernità si sono compiuti i peggiori crimini contro il popolo sardo che sarebbe ridondante tornare ad elencare. Il fatto è che dai tempi della pubblicazione del Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura di padre Francesco Gemelli del 1776, le élites modernizzatrici hanno sempre lavorato in Sardegna per procura, mai per coinvolgere le comunità e i subalterni sardi in un necessario percorso di crescita e progresso, compatibilmente con le condizioni sociali, storiche, antropologiche ed economiche isolane.
Oggi le élites modernizzatrici vogliono imporre alla Sardegna una nuova «catastrofe antropologica», scaricando sulle spalle di un ecosistema sociale fragile, frammentato e impoverito da numerosi cicli di penetrazione coloniale, il peso della transizione energetica. Il meccanismo è lo stesso del disboscamento, dell’estrazione mineraria e dell’industrializzazione forzata (ecco perché parlo di «quarta colonizzazione»). La cosa funziona più o meno così: oltremare viene approvato un pacchetto legislativo d’eccezione che non si può discutere, questo viene presentato sotto la dimensione della razionalità e della modernità da parte dei proconsoli sardi al potere. Poi si inizia a deridere le voci contrarie, attribuendogli vari epiteti denigratori come «antimoderni», «atavici», «passatisti», «retrogradi» e si usano questi dispositivi egemonici per demonizzare e mettere in cattiva luce tutte quelle realtà che criticano non il progresso in sé, ma le modalità di realizzazione. Il paradosso è che, nonostante la retorica del nuovismo e del modernismo, agisca sempre lo stesso schema applicato con l’abolizione del feudalesimo con l’editto del 12 maggio 1838.
Le modalità di applicazione della «transizione energetica» al contesto sardo ricordano infatti da vicino il cosiddetto «riscatto dei feudi». Alla fine del Settecento si sviluppò, come è noto, un movimento rivoluzionario antifeudale e repubblicano che fu schiacciato nel sangue dalla reazione alleata con la casata reale. Le stesse élites protagoniste della reazione più nera abolirono successivamente i rapporti feudali, prendendo però queste misure non nell’interesse degli strati popolari protagonisti della “Sarda Rivolutzione”, bensì soddisfacendo gli stessi interessi delle dirigenze che pochi decenni prima avevano soffocato nel sangue la ribellione antifeudale e antipiemontese. Così si optò per la pratica dell’«affrancamento», ossia il riscatto diretto del rispettivo territorio da parte dei Comuni, scaricando dunque sui vassalli (cioè sui contadini e sui subalterni in generale) prezzi di riscatto che spesso risultavano anche molto maggiori rispetto al valore reale delle terre riscattate (https://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=16448 ).
Esattamente come allora, il piano è di realizzare un provvedimento oggettivamente necessario e inderogabile (l’«abolizione del feudalesimo» al tempo e la «transizione energetica» oggi) in una maniera che escluda il popolo sardo da ogni decisione e che imponga sulla testa delle comunità sarde una nuova forma di potere antidemocratica e autoritaria, utilizzando la mitologia della modernità, come arma per tenere a bada le giuste istanze di sovranità e autodeterminazione del popolo sardo.
Ovviamente tutto nell’esclusivo interesse delle élites modernizzatrici che prima si ritrovano unite a difesa delle industrie inquinanti ed energivore, poi comprendono gli utili dell’innovazione energetica, se ne appropriano e la impongono al popolo senza condividere con i subalterni neppure le briciole dei vantaggi, e anzi si approfittano della situazione per espropriare terre, per accaparrarsi nuovi utili e, soprattutto, per ridurre sempre di più ogni istanza democratica e di partecipazione sorgente dal basso. Tutto realizzato in nome e per conto di una modernità che si ritiene di esclusiva proprietà elitaria.
Il trucco dell’appello all’unità di Bachisio Bandinu
In questo scenario sono diverse le voci che stanno iniziando a porsi il problema di fare rientrare nei ranghi istituzionali la straordinaria capacità mobilitativa del movimento Pratobello 24. Una voce autorevole è sicuramente quella dell’antropologo Bachisio Bandinu e del suo recente appello all’unità.
Bandinu, nell’incipit della sua lettera, individua con lucidità il momento storico che stiamo attraversando, riconoscendo che «forse per la prima volta, nella storia della Sardegna, si staformando una presa di coscienza a forte diffusione popolare contro quella che può essere definita la più grave servitù che la nostra Terra si appresta a subire» (https://www.progettosardegna.it/proposta-di-un-incontro-dibattito/ ).
Ma - dopo aver giustamente sottolineato le ragioni della mobilitazione che non risiedono nel rifiuto delle fonti di energia rinnovabile in quanto tali, ma nella necessità di lavorare ad una prospettiva «di un autonomo modello di sviluppo economico e sociale che generi salute e benessere diffusi» - Bandinu lancia quello che potremmo ribattezzare l’«allarme pòlemos», vale a dire il pericolo che dentro i movimento «si stanno diffondendo motividi conflittualità e di lacerazione tra gruppi, tra comitati, tra associazioni. È un fenomeno estremamente pericoloso, e purtroppo è anche un retaggio storico, che divide, crea sospetti, lancia accuse, inventa complotti. Produce le tifoserie. L’energia positiva si scarica a massa, si disperde e si consuma in contrapposizioni laceranti».
Bandinu capisce che c’è un conflitto dentro il movimento contro la colonizzazione energetica ma non si cura di renderlo intellegibile (che è quello che un intellettuale, per di più autorevole e non privo di strumenti come lui, dovrebbe fare). Al contrario veicola un messaggio di concordia a priori, come se il conflitto non avesse radici reali ma arbitrarie e come se bastasse un appello a tacere le direzioni opposte che stanno emergendo nel movimento. La soluzione prospettata da Bandinu è la seguente:
«Occorre sanare il conflitto. In questa prospettiva può essere utileun incontro di tutte le componenti, per fortuna numerose e appassionate, per svelenire le polemiche, ma soprattutto ricomporre l’unità di intenti verso l’obiettivo comune. Si tratta di consolidare, rinforzare e arricchire attraverso un momento di dibattito che valuti tutte le risposte, le proposte, gli interventi, gli obiettivi, che ci permettano di contrapporre allo Stato le ragioni, i diritti e le necessità vitali del Popolo sardo. Ciascun gruppo, ciascuna associazione, ciascun comitato, ciascuna singola persona, mette sul tavolo tutte le carte da giocare, per impostare un piano di difesa e di attacco delle ragioni più valide a profitto del Popolo sardo. Così si definisce il quadro di saperi giuridici, politici, sociali, culturali che si rifanno ad articoli della Costituzione italiana e dello Statuto sardo, alla legge urbanistica, all’estensione del Piano paesaggistico, e altro.Fondamentale il ruolo dell’Anci che rappresenta più ampiamentele comunità locali. Del tutto necessaria la presenza della Giunta regionale, per chiarire le decisioni prese e da prendere, ma soprattutto per intendere, in senso più decisamente politico, la volontà del Popolo sardo. (…) Pertanto l’incontro-dibattito che si propone, proprio perché è in gioco il futuro della Sardegna, acquista il valore e il significato di una embrionale Assemblea Costituente: un incontro di conoscenze e di passione per fare comunità e scrivere il nostro futuro, come poche volte nella Storia abbiamo fatto».
Anche non volendo dubitare della buona fede di Bandinu il suo appello va smontato e ridotto ai suoi elementi di funzionalità alla grande manovra in atto per fare rientrare l’insorgenza del movimento Pratobello 24 nei ranghi della ragion coloniale. E ancora una volta è utile ricorrere agli strumenti elaborati dal fondo di un carcere fascista da Antonio Gramsci, per capire in che senso è necessario rispondere negativamente all’appello di Bandinu e perché questo stesso appello, sotto l’apparenza di una benevola dichiarazione di pace e concordia tra le parti e di unità del popolo sardo, rappresenti un veleno micidiale per la radicalità del movimento contro la colonizzazione energetica.
Ancora Gramsci
Nei Quaderni del carcere Gramsci, com’è noto, riflette lungamente sul ruolo degli intellettuali e per farlo elabora due categorie fondamentali che sono quelle di «blocco storico» e di «egemonia». Il blocco storico rappresenta l’unità della base materiale (economica, strutturale) con le sovrastrutture politiche, ideologiche e culturali di una determinata fase storica. Queste due dimensioni sono interconnesse e agiscono sempre appunto in blocco. L’egemonia è la capacità di una determinata classe di dirigere culturalmente – e non solo attraverso la forza e la costrizione – tutte le altre componenti della società, e ciò avviene grazie ad una raffinata costruzione di narrazione, cioè grazie ad una dimensione culturale capace di costruire una lettura generale del mondo e della realtà che nasconda gli interessi di parte e sia capace di presentarsi come universale.
La base di tutto questo ragionamento è che mai, in nessun caso, il potere viene esercitato solo con la forza:
«Governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato, non generico e vago quale si afferma nell’istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche “educa” questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono organismi privati.» (Gramsci, Quaderni del carcere, Q. 6, § 24)
Allo Stato, al potere in genere, servono dunque, in egual misura, sia la forza che il consenso. Scrive Gianni Fresu nel suo ultimo lavoro su Gramsci:
«circoscrivere l’essenza dello Stato all’esercizio monopolistico della forza, pertanto, significa non comprendere la sua natura, perché, in realtà, sono parte integrante di questa trincea più avanzata tanto gli apparati privati dell’egemonia civile, quanto gli stessi intellettuali, definiti da Gramsci i “commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico» (Gianni Fresu, Questioni Gramsciane, Meltemi, p. 280)
Torniamo dunque al ruolo degli intellettuali, di questi potentissimi «commessi del gruppo dominante» e all’equilibrio che essi costruiscono tra esercizio della forza (momento politico) e consenso (momento etico). Cosa accade quando questo equilibrio si rompe?
Accade che ci troviamo davanti a quella che Gramsci chiama «crisi di egemonia», cioè un momento in cui la classe dominante non riesce più a mantenere il consenso delle masse e rischia di perdere la propria leadership culturale e politica nella società. In questa fase viene meno la capacità delle élites di diffondere i propri valori, le idee e le visioni del mondo come "naturali" e universali. Quando una classe dirigente perde questo consenso si apre una «crisi di egemonia». In questa fase, il consenso delle masse vacilla, cresce la sfiducia nelle istituzioni, e altre forze sociali (come le classi subalterne) possono tentare di prendere il potere, proponendo una propria visione alternativa. La crisi di egemonia crea quindi uno spazio per il conflitto politico e la possibilità di trasformazioni sociali radicali.
La mobilitazione contro la «speculazione energetica», andando ovviamente a stratificarsi con altre contraddizioni pregresse, crea i presupposti per una «crisi di egemonia». Le élites sarde si trovano spaesate e incapaci di gestire la questione e ciò implica un’enorme occasione per fare i conti con le élites che hanno sempre gestito il potere nell’isola per conto terzi e mai nell’interesse dei subalterni sardi.
Ma prima di trarre le conclusioni politiche di questo discorso è necessario riferirci ancora agli studi gramsciani, perché solo in tal modo potremmo avere gli strumenti adeguati per comprendere i nostri compiti.
Dall’Anti-Croce all’Anti-Bandinu
Lavorando su questi termini Gramsci studia il sistema culturale messo in piedi da Benedetto Croce e scopre che l’intellettuale idealista, ricostruendo la Storia d’Italia e la Storia d’Europa, taglia fuori il momento del conflitto, il momento della dialettica, cioè non tratta della Rivoluzione Francese e non analizza il Risorgimento Italiano, andando a scrivere praticamente trattati di «rivoluzione passiva». Croce compie questa operazione per un motivo preciso: addomesticare il momento del conflitto sociale e politico, costruire una narrazione unitaria, dove tutti si riconoscano nel risultato scaturito del conflitto (la vittoria della reazione e/o dei liberali) e si scongiuri la possibilità di una nuova negazione, cioè di un nuovo processo rivoluzionario. La storiografia di Benedetto Croce – argomenta Gramsci – non è mera ricerca storica, ma obbedisce ad un progetto politico pratico: costruire una narrazione presuntamente universale che tagli fuori il momento dello scontro, il momento del conflitto, quello che Galvano Della Volpe chiamava – con riferimento alla filosofia di Hegel – «immanente potenza del negativo».
A che serve allora l’appello di Bandinu per «sanare il conflitto», «svelenire le polemiche», e il suo invito ad «un incontro di tutte le componenti», sottolineando che appare necessaria «la presenza della Giunta regionale, per chiarire le decisioni prese e da prendere, ma soprattutto per intendere, in senso più decisamente politico, la volontà del Popolo sardo»?
A chi giova la seducente ma potenzialmente fatale proposta di «Assemblea Costituente»? Con chi ci si dovrebbe sedere in questa Assemblea? La mia impressione è che Bachisio Bandinu voglia giocare il ruolo del Croce sardo lavorando perché il movimento rientri nei ranghi dell’ordine costituito e non esondi, coinvolgendo il popolo in un gigantesco processo di auto pedagogia sociale e politica dagli esiti inediti. Dal suo appello si evince infatti che in questa «Costituente» dovrebbe sedersi anche la Giunta regionale, in nome dell’unità del popolo sardo al fine di definire il «quadro di saperi giuridici, politici, sociali, culturali che si rifanno ad articoli della Costituzione italiana e dello Statuto sardo, alla legge urbanistica, all’estensione del Piano paesaggistico, e altro». Questo passaggio non può semplicemente essere messo tra parentesi, come fa in buona fede l’amico Monni nel succitato articolo, ma è una struttura portante del progetto di Croce (e nel nostro caso di Bandinu) a cui Gramsci da il nome di «rivoluzione passiva» ( https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-la_transizione_energetica_gramsci_e_la_rivoluzione_passiva/39602_56318/)
I precedenti storici più rilevanti di «costituenti» non nascono nel seno del potere costituito, ma all’insegna dello scontro e in piena antitesi con esso. Basta pensare all’Assemblea Costituente francese con il giuramento della Pallacorda, che non nasceva sotto tutela della monarchia, ma appunto come critica e negazione delle sue regole (voto a «testa» o voto per «stato»).
Gramsci, nei Quaderni, scrive che bisogna lavorare ad un «Anti Croce», cioè ad un intellettuale organico che sviluppi tutte le contraddizioni presenti nel processo storico. Cosa vuole fare Bandinu? Vuole fare il Gramsci o il Croce sardo? Vuole lavorare a liberare tutte le energie rivoluzionarie e popolari presenti nella straordinaria mobilitazione de-coloniale rappresentata dalla Pratobello 24 o vuole essere l’intellettuale al cui nome si lega l’ennesima «rivoluzione passiva» di stampo istituzionale dove le élites al potere possano tranquillamente imbellettarsi – come stanno tentando di fare Todde e Comandini con la questione delle “aree idonee” e della “moratoria” – e riciclarsi in maniera gattopardesca? Bandinu vuole essere l’intellettuale del potere che rivitalizza se stesso o vuole «andare al popolo», cioè rendersi organico agli elementi più consapevoli della mobilitazione che hanno capito (e utilizzato) il potenziale di scontro istituzionale, culturale e sociale con lo Stato presente nella proposta di legge di iniziativa popolare “Pratobello24”?
Perché questo è in ballo, non c’è una terza via! L’appello di Bandinu è (credo volutamente) ambiguo e cela un grande pericolo: offrire un destro potente a tutte quelle forze che hanno capito l’inutilità di uno scontro diretto con il movimento nato con i banchetti di raccolta firme e si stanno attrezzando per riassorbirne la radicalità e la carica eversiva dell’ordine coloniale.
Gramsci, parlando delle forze in campo nel processo risorgimentale, sottolineava spesso che mentre Cavour aveva l’intelligenza del ruolo di Garibaldi e Mazzini, questi ultimi invece non capivano il ruolo di Cavour. A me sembra che valga lo stesso principio. Piero Comandini (che Gramsci l’ha letto e lo usa!), ha capito il ruolo della mobilitazione Pratobello 24 e sta mettendo in moto i sapienti tentacoli egemonici del suo Partito-Stato (il PD) per irreggimentare e riassorbire «molecolarmente», cioè singolarmente, uno ad uno, la maggior parte degli esponenti di questa mobilitazione. Molti hanno già fatto questa scelta e ho già segnalato questa operazione, per cui non ci ritorno ( https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-la_transizione_energetica_gramsci_e_la_rivoluzione_passiva/39602_56318/ ).
Mi sembra in effetti che l’operazione di digestione del movimento, anche utilizzando la clava delle «aree idonee», stia procedendo come avevo immaginato e cioè, al di là degli aspetti tecnici, come narrazione funzionale a riassorbire «molecolarmente» – una per una – la gran parte delle forze potenzialmente capaci di dare vita ad una «crisi di egemonia» tra i dirigenti e i diretti e quindi di aprire un processo di trasformazione della realtà, vale a dire di fuoriuscita delle comunità sarde dalla loro condizione storicamente subalterna.
Vanno lette in questa prospettiva le dichiarazioni di Piero Comandini rispetto alla legge Pratobello 24:
«Il Consiglio regionale non vuole certo ignorare questa mobilitazione popolare. Il testo entrerà nelle Commissioni e poi in aula seguendo il regolare iter previsto dallo Statuto». ( https://www.unionesarda.it/news-sardegna/pratobello-24-il-consiglio-regionale-pronto-ad-accogliere-la-legge-comandini-seguira-liter-previsto-da-statuto-lljlhf58 )
Attenzione, non si tratta di un’apertura, ma di un’abile strategia di assimilazione «molecolare» davanti alla quale il fronte contrario alla colonizzazione energetica deve tenere aperta la contraddizione e non farsi imbonire. E la contraddizione oggi – che piaccia o meno – è rappresentata dalla legge Pratobello 24 e dalla richiesta della sua applicazione integrale perché essa apre uno scontro con lo Stato e con i suoi «commessi» sardi.
Lo «spirito di scissione» del movimento Pratobello 24 e la trappola della «riforma dello Statuto»
Ora possiamo trarre le conseguenze logiche di tutto questo discorso e costruire attorno alla parola d’ordine del conflitto con lo Stato, cioè attorno alle esigenze fondamentali di sovranità energetica, urbanistica e politica che sono emerse prepotentemente nella società sarda, l’idea di una nuova bandiera insieme politica e culturale. È un terreno inesplorato che non possiamo leggere con le lenti ideologiche a cui eravamo abituati (destra / sinistra) ma che ricorda da vicino la nascita del sardismo nell’immediato primo dopoguerra. Come allora, in seguito ad un grave trauma storico, i sardi si ritrovarono uniti attorno ad una idea, precisa e confusa allo stesso tempo, quella di «autonomia». Gli intellettuali alla guida di quel movimento seppero interpretare le esigenze profonde di una spinta popolare inedita e originale nel contesto dello Stato italiano, ma poi non ebbero il coraggio di trarne le conseguenze necessarie chiarendo che si trattava di uno scontro tra sovranità contrastanti (sarda e italiana). Da allora sono cambiate tante cose, ma non è cambiata la condizione strutturalmente subalterna della Sardegna e della sua comunità, cioè quella di una regione povera e periferica, le cui condizioni di sottosviluppo erano e sono costantemente interpretate per mezzo di chiavi di lettura di tipo razzista (G. Fresu, Questioni gramsciane).
Oggi come allora sta sorgendo, nel seno profondo della società sarda, un appello sardista e popolare all'autogoverno perché tutta la battaglia contro quella che viene definita «speculazione energetica» consiste in fondo in questo, cioè nella volontà di essere i protagonisti di una «transizione energetica» ritenuta necessaria ma di non subire processi e modalità imposte da papi stranieri.
Identico è anche il problema del rifiuto di una modernità calata dall’alto, imposta con piglio centralista, burocratico e «illuminista» in senso deteriore, cioè astrattamente, a prescindere dalle condizioni reali delle comunità a cui essa andrebbe applicata.
Dalla cassetta degli attrezzi che ci ha lasciato Gramsci dobbiamo dunque cogliere anche lo «spirito di scissione» e mantenere la ferma volontà di dire di no. A chi ci dirà che sappiamo dire solo no, risponderemo che finora abbiamo detto troppi si. A chi ci dirà che dobbiamo fare la nostra parte, diremo che è esattamente questo che faremo d’ora in poi, cioè lavoreremo per la nostra parte, per le nostre comunità, per i nostri interessi, visto che in passato abbiamo lavorato sempre per gli interessi altrui. A chi ci dirà che siamo in Italia e dunque dovremo adeguarci, gli ricorderemo che abbiamo dei poteri sovrani – anche se minimi – e che d’ora in poi intendiamo usarli pienamente, a cominciare dalla piena applicazione della Pratobello 24 e che anzi abbiamo tutta l’intenzione di ampliarli. E ciò avverrà non per graziosa concessione del potere politico organico al centralismo e al colonialismo, come hanno sempre cercato di fare gli intellettuali come Bandinu, promuovendo raffinatissime e del tutto inutili proposte di «riforma dello statuto», ma sulla scia di una mobilitazione popolare di non inginocchiati, di non più schiavi, cioè di schiavi capaci finalmente di dire «no!», tutti con la penna in mano, in fila paziente e ordinata per testimoniare la loro volontà di riconquistare la democrazia e la sovranità da questo angolo di mondo che in molti ormai davano per pacificato e assimilato.
A questo punto va smascherato anche l’ennesimo grido ad orologeria sull’«autonomia sotto attacco da parte del governo nazionale» contenuto in un documento formulato da alcuni sindaci (di area campo largo) che protestano contro l’impugnazione da parte del Governo Meloni della «moratoria» elaborata dalla giunta Todde. I sindaci propongono di riformare lo Statuto aprendo «una nuova fase costituente della nostra autonomia speciale» e di «rinegoziare il patto costituzionale che lega la Sardegna allo Stato italiano. Un patto tra uguali, senza vincoli gerarchici, che assicuri alla Sardegna più poteri su tutte quelle materie dove più arrogante e invadente è la presenza dello Stato: servitù militari, paesaggio, ambiente, energia, beni culturali, ruolo internazionale della Regione». ( https://www.lanuovasardegna.it/regione/2024/09/05/news/i-sindaci-sardi-contro-il-governo-l-autonomia-e-sotto-attacco-1.100578441 ).
I sindaci invocano la partecipazione delle forze sociali a questa «Costituente», così come auspicano una «mobilitazione dal basso del popolo sardo». Ma subito dopo specificano che a capo di questa nuova fase autonomistica deve porsi la «presidente della Regione, a cui i cittadini, il 25 di febbraio, hanno affidato la salvaguardia delle nostre prerogative autonomistiche, la difesa della nostra identità di popolo».
Mi sembra che esista una oggettiva compatibilità tra questa proposta dei sindaci – orientata a disinnescare la Pratobello 24 e a salvare Todde – e la proposta di «unità costituente» di Bandinu.
Il movimento Pratobello 24 è una insorgenza politica che deve restare non pacificata, che bisognerà coltivare con estrema cura e che riapre la partita di quel «sardismo popolare e meticcio» che Gramsci – nelle sue famose lettere a Lussu – proponeva come agenda politica per i subalterni sardi (Sabino, Gramsci Sardista popolare, Filosofia de Logu, Meltemi).
Oggi all’ordine del giorno non c’è né l’unità con chi governa, né la riscrittura dello Statuto da parte di chi non si prende nemmeno la briga di legiferare davanti ad una vera e propria penetrazione coloniale, né la ricomposizione con quella parte di comitati che stanno cedendo alle sirene governiste.
Pratobello 24 ha segnato una frattura sociale importante tra «basso» e «alto» e rappresenta una potenziale «crisi di egemonia» che va approfondita e allargata, non ricomposta e sedata con operazioni di ingegneria istituzionale come quelle veicolate dai sindaci, da La Nuova Sardegna e da Bandinu. Abbiamo bisogno di aprire uno scontro di democrazia e di potere con lo Stato centrale, a prescindere dal colore politico del Governo in carica e per farlo non abbiamo certo interesse di chiedere a chi ha dimostrato freddezza e distacco verso il movimento di resistenza popolare alla colonizzazione energetica di capeggiare alcuna «Costituente».
Restiamo vigili e lucidi, perché trappole di questo tipo si moltiplicheranno nei prossimi tempi!
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