di Mjriam Abu Samra*
“Che si fa?” “Siete bravi a criticare, ma poi, che si fa? Non mi pare che sappiate fare meglio.” Non mi ero mai accorta, veramente, della gravità di queste reazioni. Anzi. D’istinto mi viene, solitamente, quasi di giustificare, di trovare immediatamente la risposta. Mi parte la tachicardia se non ce l’ho sulla punta della lingua. Non è un "che si fa?" genuino, come quello costruttivo che ci si chiede, collettivamente, tra militanti, sui territori, quando si discute insieme per immaginare strategie di mobilitazione o anche per confrontarsi positivamente con critiche e crisi che vanno affrontate. Questo è un "che si fa?" diverso, che viene posto spesso da una classe intellettuale "progressista" ma che resta neoliberale negli approcci, ancora incapaci di radicarsi davvero tra le masse. È un "che si fa?" che sembrerebbe quasi ingenuo ma che è invece accusatorio.
Non si possono criticare le metodologie della solidarietà neoliberale perché si viene immediatamente incalzati: “Che fate voi di meglio? Criticate queste iniziative ma allora che si fa?”
Riflettendo su quante volte in questi giorni io e tanti altri siamo stati contestati in questo modo, mi rendo conto ora di come questa domanda (ma anche la reazione d’ansia che mi provoca) sia l’ennesima espressione della cultura autoassolutoria che ormai domina l’approccio generale alle problematiche sociali (magari solo alla Palestina!). Relegare agli altri la responsabilità di creare, trasformare, aggiustare le falle del sistema politico. Così come si esternalizza la solidarietà identificandosi con quelle immagini eroiche di "chi ha il coraggio dell'azione spettacolare di rottura", si esternalizza anche la responsabilità di individuarne i limiti; anzi, la si rigetta per poter continuare a crogiolarsi nell’idea che “la solidarietà con la solidarietà” sia tutto ciò che si può fare, e che ci appaga, ci soddisfa; estingue ogni altra forma di ingaggio che invece potrebbe esserci.
E proprio per questo, la solidarietà-con-la-solidarietà non va solo giustificata e difesa dalle critiche: si passa al contrattacco, all’accusa verso chi evidenzia potenziali limiti dell’approccio, si accusa di “criticare per criticare” senza saper proporre alternative, di distruggere per il gusto del disfare, del remare contro, del pontificare radical-chic e intellettualoide di chi non sa invece comprendere il sentimento popolare. E incalza la domanda: “E allora tu che fai? Che si fa?” Come se questa fosse una domanda legittima! Come se davvero dovessero essere gli altri a dare questa risposta.
Di nuovo, ancora, convintamente, si delega e, anzi, ci si aspetta — con arrogante indignazione — una risposta esterna che non ci vede parte dell’equazione, che non considera il nostro ruolo come quello di soggetto protagonista, creativo, pensante, responsabile di elaborazione, ma solo come, ancora, sempre, spettatore, fruitore. Spettatore a cui va indicata la strada. Ed è responsabilità altrui se quella strada non si trova.
E questo è, nuovamente, dimostrazione di quanto il sistema abbia già cooptato, annichilito la società. Ha abituato tutti ad aspettare, pretendere e quindi anche godere, paradossalmente, di risposte e decisioni che vengono dall’alto, senza pensare, senza riflettere, senza neanche opporsi, appunto, qualora non si rivelassero effettivamente vantaggiose o genuinamente nell’interesse della società, della persona. E quindi anche il cambiamento non è più responsabilità nostra, condivisa, collettiva. È qualcosa che ci deve essere indicato.
Ma non solo: deve essere presentato bello e pronto. Non si accetta neanche più l’idea della decostruzione, del tempo dell’analisi necessario a comprendere come e da dove ripartire. L’analisi è superflua, è esercizio intellettuale rifiutato, svilito, neutralizzato nel paradossale ricorso alla narrativa dell’“immobilità” del contro-producente criticismo sterile. L’analisi, la decostruzione — per essere più chiari, l’esercizio del pensiero, del pensare — vengono interpretati come ostacoli alla fattualità, non come le basi su cui costruire insieme una prassi che sia coerente con la realtà, con obiettivi ben identificati, chiariti, condivisi ed effettivamente trasformativi.
È la vittoria del pensiero neoliberale e capitalista anche nella produzione intellettuale e nella concezione del politico: consumismo appagante nella dinamica del “tutto e subito”. Guardiamo alle idee e alla mobilitazione come quando si sta al ristorante: si ordina il menù del giorno, che indica le opzioni possibili e le presenta tutte succulente, e ci si aspetta di vedersi serviti tutto e subito; e i camerieri che si affrettano ad assicurare che il servizio sia efficiente.
Ecco l’altro paradosso: “Che si fa?” E io ho la tachicardia perché so che, se non rispondo — e non rispondo con una strategia che sia accettabile, facilmente comprensibile, capace di presentarsi come appagante, facile da mettere in atto, spettacolare negli obiettivi — verrò additata come quella che non si accontenta, come quella che rema contro. E quasi mi preparo a scusarmi. Anche io, assuefatta a quell’egemonia neoliberale in cui la passività è accettata come indiscutibile realtà, e chi si muove, chi interagisce, interviene, è un’eccezione. E proprio per questo, anche quando ci si muove male, in effetti, bisognerebbe risparmiarsi la critica, bisognerebbe ringraziare. È un circolo vizioso. A cui è difficile sfuggire. E rischi allora di internalizzare il colonialismo, ringraziando la società civilizzatrice e le sue pratiche di solidarietà neoliberale perché troppo debole per rivendicare che, forse no, forse non devo rispondere io — pronta, automatica, decisa — al “che si fa”, come un distributore ATM.
Che si fa? Beh, innanzitutto, si prende consapevolezza di non essere spettatori, di avere una responsabilità storica — e sempre più impellente — di sforzarci tutti di rispondere a questa domanda, di farla a noi stessi e riportarla nella collettività invece che esternalizzarla, di porla da fuori come se non ci riguardasse ma la risposta ci fosse dovuta da altri. Forse bisognerebbe partire dal concepire l’analisi, anche quella che presenta la critica spietata, come momento fondante del processo costruttivo che identifica le falle e si prepara a immaginare nuovi mondi.
Forse questo ci permetterebbe di non aver bisogno di eroi che ci somigliano, di non restare chiusi in un eurocentrismo, un provincialismo che finisce per riprodurre narrative e rapporti coloniali e per soddisfare il sogno esotico del salvatore bianco, del Che Guevara politically correct, integrabile nella concezione rassicurante della retorica pacifista e del dissenso non violento che ci eleva a civilizzazione dai valori superiori e universali; e che riduce “i salvati e i salvabili” a tenersi le critiche e ringraziare amaramente.
Ghassan Kanafani ci ha insegnato il romanticismo rivoluzionario. Ci ha regalato il sogno di una rivoluzione che, per essere tale, non può che essere romantica nella sua ambizione al tutto che è la liberazione. E per quel sogno, per quell’insegnamento, io non mi accontento, e continuo a “decostruire”, a “criticare”.
Soprattutto non accetto di accontentarmi dei luccichii che abbagliano e, prendendo di più della solidarietà, pretendo l’alleanza nella lotta, la presa di coscienza che ci vuole tutti in prima linea ma invisibili, sagome confondibili di piccole formichine che, senza farsi notare e con pazienza infinita, costruiscono insieme un’alternativa vera, solida, duratura: che cambia il sistema, che lo destabilizza alle fondamenta rifiutando di lasciarsi limitare nell’immaginario del possibile, rifiutando il compromesso di una schiavitù a cinque stelle. La giustizia, la rivoluzione.
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Con i contributi di Mjriam Abu Samra (curatrice), Shaden Ghazal, Rania Hammad, Sabrin Hasbun, Laila Hassan, Samira jarrar, Sara Rawash, Noor Shihade, Tamara Taher, Widad Tamimi.
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* Ricercatrice post-doc Marie Curie presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell'Università Ca' Foscari di Venezia e il Dipartimento di Antropologia dell'Università della California, Davis, USA. È stata coordinatrice del Renaissance Strategic Center ad Amman, in Giordania, e ha insegnato all'Università di Giordania e in istituti universitari americani ad Amman. Mjriam ha un dottorato in Relazioni Internazionali presso l’Università di Oxford, nel Regno Unito, la sua ricerca si concentra sulla politica studentesca transnazionale palestinese e anticolonialismo. È stata tra i fondatori del movimento giovanile palestinese transnazionale (PYM).
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