di Vincenzo Pellegrino - laureato in Giurisprudenza all'Università di Perugia
La morte di Papa Francesco, avvenuta il 21 aprile 2025, lunedì di Pasquetta, segna la fine di un pontificato che ha scosso la Chiesa cattolica, sospesa tra slanci di rinnovamento e profonde divisioni, invitando a un’esplorazione meditata da parte di un osservatore come me, un non credente estraneo ai dogmi istituzionali ma affascinato dalla spiritualità come luce che eleva l’umano oltre il contingente, e come giurista esamino con rigore analitico, attraverso la lente cristallina del diritto canonico, un’istituzione millenaria che si trova a un crocevia cruciale: un’opportunità per riscoprire la propria vocazione trascendente o il preludio di un declino irreversibile.
Cercando di intrecciare le ombre giuridiche, le audacie pastorali e le tensioni culturali del pontificato di Francesco con le sfide di un mondo disincantato, questa riflessione tenta, con umiltà e senza pretesa di esaustività, di cogliere l’essenza di un passaggio storico, provando a illuminare le complessità di una Chiesa chiamata a ridefinire il proprio ruolo in un’umanità assetata di significato, e tale sforzo si radica nella traiettoria di Jorge Mario Bergoglio, eletto papa il 13 marzo 2013, che ha assunto la guida della Chiesa in un’epoca di tumultuosi cambiamenti culturali e sociali, cercando di traghettarla verso una modernità che, per molti fedeli, ha rischiato di offuscarne l’identità spirituale, distinguendosi per un’apertura audace e un anelito di dialogo con un mondo secolarizzato che ha suscitato entusiasmo ma anche profondo smarrimento, come evidente in encicliche come Amoris Laetitia (2016), che ha aperto spiragli per l’accesso alla comunione dei divorziati risposati, e Laudato Si’ (2015), con il suo vibrante richiamo alla custodia del creato.
In Amoris Laetitia, Francesco ha cercato di rispondere al dramma delle famiglie moderne, proponendo una pastorale della misericordia che, pur radicata nella dottrina, ha suscitato dibattiti sulla sua compatibilità con il magistero tradizionale, specialmente per le aperture interpretative sulla disciplina sacramentale, mentre in Laudato Si’ ha offerto una visione teologica dell’ecologia, collegando la cura del creato alla dignità umana e alla giustizia sociale, un messaggio che ha trovato eco anche tra i non credenti e ha influenzato il dibattito globale sul cambiamento climatico, consacrando così la Chiesa come un’autorità morale rilevante che intreccia temi universali con le sensibilità di un’epoca frammentata.
Tuttavia, queste scelte hanno destato critiche veementi da parte di chi le ha percepite come una cesura con il magistero tradizionale, un cedimento alle lusinghe di un relativismo culturale, con i tradizionalisti che hanno rimproverato a Francesco di attenuare la chiarezza delle verità cristiane, sacrificando l’integrità dottrinale per un dialogo che, a loro avviso, rischia di dissolvere la specificità del cristianesimo, come nel caso della flessibilità pastorale di Amoris Laetitia, letta da alcuni, come il cardinale Raymond Burke, come un’erosione della disciplina sacramentale, o dell’enfasi ecologica di Laudato Si’, accusata di distogliere l’attenzione dalla centralità della salvezza spirituale, e da non credente colgo in queste mosse il tentativo di rendere la Chiesa un faro per un’umanità smarrita, ma anche il pericolo di alienare chi in essa cercava un baluardo contro il disordine culturale contemporaneo, una tensione tra innovazione e tradizione che ha attraversato il pontificato come una corrente nascosta, rendendo Francesco una figura tanto osannata quanto controversa.
Questa polarizzazione, tuttavia, non si esaurisce nel dibattito teologico o pastorale, ma si intreccia con una crisi giuridica profonda che getta ombre sulla legittimità del suo pontificato e sulla stabilità dell’istituzione ecclesiastica, poiché al cuore delle controversie vi è la rinuncia di Benedetto XVI nel 2013, un evento raro nella storia moderna della Chiesa che ha sollevato interrogativi sulla validità dell’elezione di Francesco, con alcuni tradizionalisti che sostengono che l’abdicazione di Joseph Ratzinger non sia stata pienamente libera, ipotizzando pressioni esterne, come tensioni geopolitiche o lotte di potere interne al Vaticano, o vizi canonici che ne avrebbero compromesso la legittimità, rendendo Bergoglio un “antipapa”.
Come giurista, propendo per questa tesi, fondando la mia analisi su un’ermeneutica rigorosa del diritto canonico, dove il Canone 332 §2 del Codex Iuris Canonici stabilisce che la rinuncia al papato debba essere libera, inequivocabile e riferita al munus petrinum – l’ufficio divino del papato – e non al ministerium, l’esercizio pratico delle sue funzioni, ma nella Declaratio del 2013 Ratzinger annuncia la rinuncia al ministerium Episcopi Romae, omettendo un riferimento esplicito al munus petrinum, una scelta lessicale che, secondo un’interpretazione stringente, potrebbe infirmare la validità della rinuncia, poiché il munus rappresenta l’essenza ontologica del papato, distinta dalle sue funzioni operative, un’ambiguità aggravata dalla decisione di Ratzinger di mantenere il titolo di “papa emerito”, l’abito bianco e la residenza in Vaticano, scelte che, in un’ottica giuridica, potrebbero suggerire una continuità implicita del ruolo spirituale, incompatibile con un’abdicazione totale.
Nel diritto canonico, che esige chiarezza assoluta per atti di tale portata, queste incongruenze rappresentano un ostacolo alla validità della rinuncia, poiché la successione petrina non ammette ambiguità, e studiosi come la canonista Geraldina Boni hanno evidenziato come la distinzione tra munus e ministerium sia cruciale per l’integrità giuridica dell’atto, notando che l’assenza di un riferimento esplicito al munus apre spazio a interpretazioni di invalidità, osservazioni rafforzate dalle analisi di Antonio Socci, che in Non è Francesco (2014) ipotizza irregolarità nel conclave del 2013, come violazioni della costituzione apostolica Universi Dominici Gregis (ad esempio, un possibile scrutinio non valido), e di Andrea Cionci, che in Il Codice Ratzinger (2021) interpreta il linguaggio di Ratzinger come un segnale criptico di resistenza, con la conservazione di simboli pontificali come atto di opposizione silenziosa, mentre la presunta “mafia di San Gallo”, un gruppo di cardinali progressisti accusato di aver orchestrato l’elezione di Francesco, come suggerito dalle rivelazioni del cardinale Godfried Danneels, complica ulteriormente il quadro, pur in assenza di prove definitive.
Queste accuse riflettono un malessere profondo verso le dinamiche vaticane, dipingendo una Chiesa attraversata da conflitti che evocano le corti rinascimentali, lontane dall’ideale di purezza spirituale, e da osservatore esterno trovo suggestivo come queste controversie giuridiche, lungi dall’essere mere tecnicità, rivelino la natura terrena dell’istituzione ecclesiastica, un groviglio di potere e fragilità umane che fatica a conciliare la sua missione divina con le dinamiche di un’organizzazione terrena, dispute che, unite alla polarizzazione teologica, hanno alimentato una sfiducia diffusa, minando la legittimità del pontificato di Francesco e ponendo la Chiesa dinanzi a una crisi di autorità che ne minaccia la stabilità, un’incertezza che si riverbera sul piano pastorale, amplificando il disorientamento tra i fedeli già divisi dalle scelte di Francesco.
Nonostante la gravità di questi interrogativi, è improbabile che la Chiesa affronti apertamente la questione dell’antipapa, poiché la sua storia millenaria le ha insegnato a gestire le crisi con discrezione, sanando le fratture lontano dagli occhi del mondo, e la morte di Francesco non cambierà questa prassi: come un organismo antico, la Chiesa ricompatterà le sue divisioni, privilegiando la continuità istituzionale anche a costo di eludere domande scomode, un pragmatismo che, pur efficace, stride con l’ideale di trasparenza atteso da un’istituzione che si propone come guida morale, e questa crisi giuridica cede il passo a un’altra sfida centrale del pontificato di Francesco, l’apertura al mondo contemporaneo, un progetto che ha generato nuove tensioni e spostato il focus sulla missione spirituale e culturale della Chiesa, poiché Francesco ha cercato di allineare la Chiesa ai principi del globalismo e dell’ideologia woke, ridefinendo il suo ruolo in un mondo sempre più secolarizzato.
La sua enfasi sulla giustizia sociale, l’accoglienza dei migranti e la lotta alle disuguaglianze, incarnata in encicliche come Fratelli Tutti (2020), ha conquistato chi cercava un’autorità morale capace di rispondere alle urgenze del presente, e il dialogo interreligioso, sancito dal Documento sulla Fratellanza Umana firmato ad Abu Dhabi nel 2019, ha mirato a costruire ponti con altre fedi, promuovendo una visione di fratellanza universale, gesti che hanno reso la Chiesa un attore globale, capace di parlare a un’umanità frammentata con un linguaggio di unità e compassione, come in Fratelli Tutti, dove Francesco ha proposto un modello di società basato sulla solidarietà, sfidando le logiche dell’individualismo e del nazionalismo, o nel Documento sulla Fratellanza Umana, che ha segnato un passo storico verso la cooperazione tra cristianesimo e islam, affrontando temi come la pace e la dignità umana, iniziative che hanno ispirato movimenti sociali e dialoghi interreligiosi in contesti complessi, come il Medio Oriente.
Tuttavia, il cristianesimo, radicato in una verità unica e immutabile, non può piegarsi a un sincretismo accomodante senza rischiare di perdere la propria essenza, e questo approccio, pur animato da intenti di fratellanza, ha suscitato perplessità tra i fedeli legati alla tradizione, che hanno accusato Francesco di cedere a un’agenda globalista e woke, un’ideologia secolare che, con il suo focus su valori terreni come l’inclusività e l’uguaglianza sociale, erode la vocazione trascendente della Chiesa, trasformandola, per molti, in un attore socio-politico e smorzando la sua capacità di offrire un’alternativa radicale al materialismo e al relativismo contemporanei, poiché l’adozione di un linguaggio che richiama le narrazioni delle organizzazioni secolari, come ONG o movimenti progressisti, ha rischiato di diluire il messaggio cristiano, confondendo la missione spirituale con l’attivismo, ad esempio nell’enfasi sull’accoglienza dei migranti, radicata nella carità cristiana ma percepita da alcuni come un’adesione acritica a politiche globaliste, trascurando le complessità culturali e sociali, o nel dialogo interreligioso, lodevole ma fonte di timori di un relativismo teologico che potrebbe attenuare la centralità della fede cristiana.
Da non credente, colgo in questa postura il tentativo di rendere la Chiesa rilevante in un’epoca di disincanto, un faro per un’umanità smarrita, ma a costo di offuscare il confine tra fede e impegno sociale, sacrificando talvolta la spiritualità, che per me è una ricerca intima del trascendente, a un discorso troppo legato alle contingenze, una deriva ideologica che, intrecciata ai dubbi giuridici sulla legittimità del pontificato, ha aggravato una crisi di identità, alimentando il distacco di molti fedeli, come evidenziano i dati del Pew Research Center, che indicano un calo della partecipazione ai riti e dell’adesione al cattolicesimo in Europa occidentale, scesa sotto il 20% in molti paesi, e in America Latina, dove il cattolicesimo ha perso terreno a favore di movimenti evangelici, un declino che Francesco non è riuscito a invertire, poiché le sue posizioni, viste come troppo progressiste da alcuni e non abbastanza riformatrici da altri, non hanno riunito una comunità frammentata né offerto una visione spirituale capace di contrastare il nichilismo dominante, e nel cercare di abbracciare il mondo la Chiesa ha rischiato di smarrire la propria unicità, lasciando molti fedeli orfani di una guida che unisca l’eterno al presente.
Questa crisi di identità, aggravata dalle controversie giuridiche e dalle scelte pastorali, culmina con la morte di Francesco, avvenuta in un giorno così carico di significato come il lunedì di Pasquetta, che pone la Chiesa dinanzi a un bivio esistenziale, offrendo uno spazio di riflessione e possibilità per sanare le divisioni, riaffermare la missione spirituale e riconquistare i fedeli perduti, con una visione che trascenda le mode ideologiche del presente, permettendo alla Chiesa di ritrovare la sua voce e proporre un cristianesimo che parli al cuore dell’uomo contemporaneo senza cedere al conformismo globalista, riaffermando la sua vocazione di guida verso il trascendente, un equilibrio tra fedeltà alla tradizione e apertura alle sfide moderne che rappresenta un compito arduo ma essenziale per riaffermare la rilevanza della Chiesa in un mondo in trasformazione, anche se il rischio di un’ulteriore erosione della sua autorità in un mondo sempre meno incline a riconoscerla rimane concreto, e un fallimento in questo rinnovamento potrebbe accelerare il declino di un’istituzione che fatica a navigare le tensioni tra tradizione e modernità.
Come antireligioso, non credo nella Chiesa come istituzione necessaria per elevare le anime, poiché ritengo che la spiritualità possa fiorire al di fuori di strutture organizzate, ma riconosco la sua centralità per miliardi di persone che in essa trovano un faro di senso e il suo potere reale nell’influenzare le loro vite, e in un’epoca in cui la consapevolezza della non necessità di tali istituzioni non è ancora diffusa, è cruciale che la Chiesa, per chi ripone in lei la propria fiducia, si configuri come una guida autentica verso una dimensione trascendente, capace di elevare l’umano oltre il frastuono del quotidiano, poiché la morte di Francesco chiude un capitolo tormentato, ma il futuro della Chiesa dipenderà dalla capacità di chi verrà dopo di lui di navigare le tensioni tra autenticità e responsabilità, tradizione e modernità, con una visione che riconcili il passato con il presente, e in un mondo affamato di significato un fallimento avrebbe un costo immenso, mentre un rinnovamento ben condotto potrebbe accendere una luce nuova, capace di ispirare chi cerca un senso più alto in un’epoca incerta.
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