di Loretta Napoleoni
Mentre sui giornali italiani si celebra la vittoria diplomatica di Giorgia Meloni per essere stata ricevuta da Trump in gran pompa, su quelli finanziari non se ne parla. Il tema fondamentale per la stampa economico-finanziaria è la rotta di collisione tra Trump e Powel, il governatore della Riserva Federale. Uno scontro che mette in crisi il sistema di equilibrio dei poteri statunitense. Ma tralasciamo questo fattore importantissimo per ora, e concentriamoci sul simbolismo della visita di Giorgia.
La visita dell'altro ieri si riallaccia a quella di Mar-a-Lago, entrambe non sono state solo un gesto di cortesia diplomatica. Il suo simbolismo va cercato nel passaggio tra due visioni del mondo che si alimentano reciprocamente, un’alleanza tra nazionalismi economici che interpretano la crisi del neoliberismo come un’opportunità per ridefinire le regole del capitalismo globale.
In un articolo del Financial Times di ieri in prima pagina c’e’ l’analisi di questa veduta. Trump non è un’anomalia del sistema: è il prodotto più coerente della sua degenerazione. La sua visione del mondo—un mosaico di fortezze economiche chiuse, in competizione permanente—è il volto brutale del post-globalismo, una versione del capitalismo ancora piu’ brutale del globalismo selvaggio della fine degli anni Novanta e con il quale abbiamo convissuto per decenni. Finita l’epoca del libero scambio senza vincoli, oggi si impone un nuovo paradigma: il protezionismo strategico, l’autarchia tecnologica, il controllo dei flussi finanziari e migratori. In questa visione, l’economia è uno strumento di potere nazionale, non più un terreno di cooperazione internazionale.
Meloni, consapevole o meno, ha abbracciato questa impostazione. La sua politica economica si è mossa in un perimetro ambiguo: da un lato promette stabilità di bilancio per rassicurare i mercati, dall’altro flirta con un sovranismo economico che richiama il modello trumpiano—difesa dell’industria nazionale, controllo delle frontiere, revisione dei rapporti con l’Unione Europea. Su questo terreno la Meloni ha tessuto rapporti stretti con Trump ed oggi li usa per accattivarsi le simpatie del presidente degli Stati Uniti quale ‘ambasciatore’ dell’UE.
Ma quali sono le implicazioni reali di questa svolta? Dal 2008, l’architettura neoliberale ha subito colpi devastanti: la crisi dei mutui subprime, quella del debito sovrano europeo, la pandemia, la guerra in Ucraina. Ogni shock ha accelerato la tendenza alla deglobalizzazione. Le catene del valore si sono accorciate, le relazioni commerciali si sono politicizzate, e il dollaro è tornato a essere non solo moneta di scambio, ma arma geopolitica usata dai mercati e dai politici, vedi taglio dei tassi d’interesse della BCE per calmierare l’apprezzamento dell’euro. Trump ha saputo leggere questa trasformazione meglio di molti tecnocrati europei: ha utilizzato i dazi come leva negoziale, ha imposto sanzioni come forma di guerra economica, e ha trasformato l’export di energia e tecnologia in uno strumento di egemonia.
Meloni proroga la causa europea perche’ l’Europa non e’ pronta né capace di camminare da sola sullo scacchiere mondiale. Ma nel mondo delle fortezze, i capitali non sono più neutrali: hanno una bandiera. Le nuove guerre commerciali—tra Stati Uniti e Cina, tra Unione Europea e Russia, tra Occidente e Sud globale—non si combattono con eserciti, ma con dazi, sanzioni e controlli sui chip. E in questo contesto, l’Italia rischia di diventare un campo di battaglia, una zona cuscinetto tra potenze.
Il paradosso è evidente: mentre Meloni abbraccia Trump, l’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa, integrato nelle catene del valore tedesche, dipendente dagli investimenti europei e ancora legato a regole di bilancio e governance comuni. Ma se il modello europeo implode sotto il peso delle crisi sistemiche—dalla stagnazione demografica all’inflazione strutturale—l’attrattiva del modello trumpiano cresce. Meglio essere una fortezza in guerra che una provincia in declino?
Il mondo che Trump e Meloni evocano è un ritorno al capitalismo di Stato, una frase che in Italia dovrebbe ricordarci l’economia fascista, ma in versione predatoria. Le alleanze si basano sullo scambio di favori, non su valori condivisi. L’autonomia strategica non è cooperazione tra pari, ma sottomissione dei deboli ai forti. Trump lo dice apertamente: chi non ha forza militare o peso economico, deve cedere. E Meloni, pur conoscendo la lezione della storia, sembra disposta a correre il rischio.
Le fortezze economiche non sono sostenibili nel lungo periodo. Chiudere i confini significa aumentare l’inflazione, ridurre la competitività, isolarsi dalle innovazioni globali. Lo vediamo nei numeri: gli Stati Uniti di Trump hanno registrato aumenti nei costi di produzione, perdita di posti di lavoro nei settori colpiti dai dazi e tensioni crescenti nel mercato energetico. L’autarchia è costosa, e spesso inefficace.
Nel XXI secolo, nessuna economia può prosperare da sola. Le sfide globali—cambiamento climatico, IA, scarsità delle risorse—richiedono coordinamento e cooperazione, non chiusura. Negare questa realtà, come fanno Trump e i suoi alleati, è un atto di miopia strategica. Significa prepararsi non alla crescita, ma al collasso.
Il viaggio di Meloni a Mar-a-Lago mette a nudo una dicotomia pericolosa: tra un’Europa fragile ma indipendente e proiettata verso il bene comune, e un’America che sogna un nuovo imperialismo economico. Ma stiamo attenti, come ci ricorda l’articolo del Financial Times nel mondo delle fortezze, non esistono veri alleati—solo subordinati e rivali. E quando le mura cominciano a crollare, nessuno viene a salvarti.
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