La rivincita dei Nativi Americani? Killers of the Flower Moon e Lily Gladstone

26 Febbraio 2024 17:00 Raffaella Milandri

di Raffaella Milandri

Molti sono, in Italia, gli appassionati degli Indiani d’America, legati sia a realtà nazionali che hanno avuto un forte impatto culturale, dall’eroe di carta Tex Willer alle canzoni di Fabrizio De Andrè, sia a grandi film – dalla parte degli “Indiani” – impressi nella memo-ria: L’Ultimo dei Mohicani, Balla coi Lupi, e i più recenti I segreti di Wind River e Hostiles. Eppure è un argomento conosciuto in modo poco approfondito, sia a livello storico che di attualità.

I Nativi Americani sono senz’altro usciti dal ruolo di “brutti e cattivi”, inneggiato dai film di John Wayne. Di Wayne ricordiamo la reazione rabbiosa durante il famoso episodio agli Oscar del 1973, in cui Marlon Brando, attivista dell’AIM, American Indian Movement, rifiutò la prestigiosa statuetta attribuitagli per Il Padrino. Sacheen Littlefeather, per volere di Brando, salì al suo posto sul palco per criticare la rappresentazione del popolo nativo da parte dell'industria cinematografica e della televisione, e fu fischiata dal pubblico. Ma non solo: pare che John Wayne stesso abbia cercato di allontanarla dal palco, e ci vollero sei uomini della sicurezza per fermarlo. È perciò anche con la memoria di quella vicenda che ci affacciamo alla cerimonia degli Oscar di quest’anno, augurando una “rivincita” attraverso Lily Gladstone.

C’è da dire che sui Nativi Americani esiste tutt’oggi una disinformazione radicata e persistente, da cui non siamo immuni solo in Italia, ma anche negli Stati Uniti, la loro terra. Le ragioni sono quelle di occultare il “peccato originale” occidentale. I Nativi Americani sono, infatti, lo specchio del nostro mondo, simboli della colonizzazione e della conquista – all’arrembaggio – di popolazioni e territori extra-europei. Conoscere la loro storia vuol dire, in realtà, conoscere noi stessi e andare a scandagliare i meandri bui della oscurità del nostro mondo di “bianchi”.

È perciò molta la curiosità sollevata da Killers of the Flower Moon, in cui viene narrata la storia degli “indiani” Osage. Una storia in cui i “bianchi” fanno la parte dei cattivi. Anzi, cattivissimi. La vicenda realmente avvenuta è presto detta: nella riserva Osage, negli anni Venti, viene scoperto un enorme giacimento di petrolio. Nella quasi totalità delle riserve indiane prevalgono all’epoca estrema povertà, assimilazione forzata, pesanti discri-minazioni, e una serie di leggi che bandisce i nativi dai diritti più basilari (cittadinanza, diritto di voto, etc.). Le tribù, a partire dall’inizio dell’Ottocento, hanno sottoscritto quei famosi trattati, spesso estorti con l’inganno e la forza, che li hanno relegati in fazzoletti di terra parte di un Nord America che apparteneva a loro per intero. Perlopiù queste terre sono in aree designate e quindi scarse di risorse, aride e desertiche, dove la sopravvivenza è difficile e dove i programmi del Governo statunitense decidono la sorte delle tribù.

In una atmosfera di profondo razzismo, quindi, avviene l’imprevedibile: proprio nel lembo di terra degli Osage all’improvviso il petrolio sgorga letteralmente dal terreno. Vari impedimenti burocratici impediscono agli Osage di godere direttamente della ricchezza dell’oro nero: ad esempio, nel film, vediamo Mollie Burkhart, la protagonista interpretata dalla Gladstone, affidata a un tutore bianco che amministra i suoi beni, in quanto “incapace”. Questa presunta incapacità, che non viene spiegata nel film, deriva sia dalle propaggini del Dawes Act, una legge che aveva smembrato e amministrato le già rosicate proprietà dei nativi, sia dallo smantellamento della società matriarcale della tradizione degli Indiani d’America. Ma sarebbe una storia lunga da raccontare.

Di fatto, gli Osage, pur impediti nella gestione diretta delle loro ricchezze, iniziano una nuova vita a livelli di benessere elevatissimi. Molto più benestanti dei bianchi stessi, che nel film vediamo ricoprire perfino ruoli di operai e camerieri al loro servizio. Una situazione insostenibile e insopportabile che porta a una serie di omicidi ai danni degli Osage, laddove ci sia poi un bianco in grado di ereditare o rilevare i benefici derivanti dal petrolio.

Veniamo ora al film e al perché ci aspettavamo di più da Scorsese. In sostanza, si denunciano orribili crimini seriali ai danni dei Nativi; ma ai Nativi stessi, oltre a qualche scena legata a cerimonie e tradizioni, non viene lasciato molto spazio: tanto per intenderci, non viene illustrata la situazione generale del rapporto tra le tribù e il governo americano, né le mille difficoltà che affliggevano – e in buona parte affliggono anche adesso – la vita degli Indiani d’America. Scorsese si concentra sulla traccia crime e poliziesca, a discapito del contesto storico e politico. Certo, cosa succede si comprende bene, ma si è evitato di andare oltre nello spiegare cosa davvero significasse essere un Nativo negli anni venti.

A rendere giustizia, affiancata dai mostri sacri De Niro e Di Caprio, è proprio la presenza, spesso silenziosa, di Lily Gladstone: il suo sguardo, la sua recitazione, restituiscono tutta la drammaticità del mondo nativo in America. Ieri e oggi.

Non ci resta che farle un grandissimo in bocca al lupo per la vittoria, perché tutta la comunità dei Nativi Americani – oltre nove milioni in base al censimento del 2020 – è unanime e compatta, pronta a celebrare, finalmente, una rivincita.

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