L’ARRESTO DI HANNOUN. REPRESSIONE-METODO E MOVIMENTO INNOCUO

Pasquale Liguori

C’è qualcosa di ipnotico nel leggere, in fila, le dichiarazioni di Calenda, Meloni, Renzi, Lupi, Picierno, Salvini e Tajani. Non è politica: è karaoke. Uno spartito unico, un’impressionante omogeneità lessicale, simbolica e politica. Parole d’ordine preconfezionate: infiltrazioni, tolleranza zero, sicurezza, ordine.

L’arresto di Mohammad Hannoun ha un obiettivo tricolore preciso: criminalizzare retroattivamente e in prospettiva l’intero campo palestinese. Non è un caso che Calenda parli di “movimenti infiltrati”, che Picierno ne approfitti per cucire il fantasy del filo “galassia putiniana”-Palestina, che Salvini ironizzi sulle masse e che Meloni celebri l’operazione come una vittoria geopolitica. Tutti mobilitati a ridefinire il perimetro del dicibile.

Dentro questo trionfalismo securitario colpisce soprattutto ciò che manca (al netto della disonestà intellettuale e della profonda ignoranza storico-politica su cosa siano resistenza, Hamas, Gaza). È un’analisi condotta col buco intorno: non esiste occupazione illegale; non esiste idiritto alla resistenza; non esiste la parola genocidio.

Per costoro, bisogna infatti rassicurare i carnefici. Dire a Israele, agli Stati Uniti, all’architettura imperiale occidentale: «Siamo affidabili. Conteniamo il dissenso. Facciamo anche noi il lavoro sporco». È lo stesso ceto politico che esprime esponenti apicali che, senza imbarazzo, dichiarano di voler accogliere sul suolo italiano criminali sionisti ricercati a livello internazionale. Qui il doppio standard non è un inciampo: è la regola. Da questa gente te lo puoi aspettare.

Che Hannoun sia una voce autentica palestinese è evidente a chiunque lo abbia ascoltato. Ed è proprio questo il punto: non il “terrorismo”, ma la legittimità politica di una parola — resistenza — che non chiede permesso all’Occidente per esistere.

La cosa più disgustosa (ma non sorprendente) è un’altra. Una vasta parte del nostrano movimento “ProPal” mostra tutta la sua debolezza strutturale: si ritrae, si disperde, balbetta. Nessuna linea, nessun nerbo, nessuna voce realmente forte, autorevole e acuta. Non riesce a prendere parola ferma e incarnare una posizione di rottura. E Hannoun, in definitiva, appare praticamente solo. Questo isolamento non è casuale: è il prodotto di anni e, soprattutto, di mesi recenti di depoliticizzazione, moralismo e paura di essere “radicali”. La galassia “ProPal”, con buona manualità esperta di selfie arcobaleno, si limita a postare indignazione a bassa intensità: regge finché la solidarietà non costa nulla.

Qui va spezzato un equivoco che circola anche in ambienti che si immaginano radicali e che, purtroppo, funziona come anestetico politico. La repressione non è, di per sé, una rivelazione. Non chiarisce automaticamente il conflitto, né apre inedite possibilità solo perché mostra il volto duro del potere. Senza organizzazione, senza una lettura reale dei rapporti di forza, senza una strategia capace di reggere l’urto, la repressione non è una crepa del sistema: è il suo funzionamento ordinario. È il modo con cui il potere seleziona chi può essere isolato e reso sacrificabile senza costi politici rilevanti. Ed è ciò che sta accadendo. Hannoun e gli altri con lui arrestati non vengono colpiti perché il sistema è in difficoltà, ma perché il campo che avrebbe dovuto difenderlo è stato reso innocuo, moralizzato, frammentato. La repressione non arriva dopo la debolezza: la utilizza. La sfrutta e la mette a valore.

Non si costruisce alcun movimento reale a colpi di indignazione, né brandendo citazioni come lasciapassare identitari. La guerra, la repressione, la pace non si spiegano con gli anatemi, ma seguendo i flussi materiali di potere: il denaro, gli interessi economici, le architetture che rendono conveniente il conflitto e sostenibile la violenza coloniale. Senza questo sguardo, ogni discorso “antimperialista” resta una posa estetica della radicalità, autocompiacimento. Un movimento moltitudinario del comune non nasce dai selfie arcobaleno, né dalla liturgia della purezza, ma dalla capacità di capire chi decide, chi guadagna, chi paga, e come colpire quei nodi. Tutto il resto - rutti ideologici, scomuniche reciproche, citazioni peraltro improprie - non produce forza. Serve solo a mascherare l’impotenza mentre il potere, molto concretamente, seleziona i suoi bersagli.

Questo vuoto, questa incapacità di reagire in modo politico alla repressione, non cade dal cielo. È il risultato diretto di un movimento costruito come sommatoria occasionale di presenze, privo di orientamento, di organizzazione e di senso della lotta. Un campo che ha confuso la massa con la forza, la visibilità con il radicamento, l’evento con il conflitto. Un movimento che non sa - o non vuole - assumere fino in fondo ciò che la resistenza palestinese ha mostrato nella pratica: che senza disciplina, continuità e capacità di reggere il costo politico e umano dello scontro, la solidarietà resta un gesto revocabile, facilmente neutralizzabile.

In questo quadro, dunque, il silenzio dominante che oggi circonda Hannoun non è un’anomalia: è una conseguenza. È lo stesso campo che, per mesi, è stato cavalcato opportunisticamente da figure pronte a salire sui palchi quando la solidarietà garantiva consenso e visibilità, ma del tutto indisponibili a esporsi quando il prezzo diventa reale. In particolare, quegli esponenti di partiti “presentabili” che hanno calcato - e persino convocato, applauditissimi - le manifestazioni oceaniche e le iniziative a sostegno di regate nel Mediterraneo, oggi scompaiono. Gli stessi che, di fronte a restrizioni dirette a soggetti più appetibili sul piano mediatico ed elettorale, si erano spesi in roboanti atti di denuncia, ora tacciono. Zero parole, zero conflitto: Hannoun non è un simbolo spendibile, ma una voce palestinese reale; non un testimonial, ma un soggetto politico. È precisamente per questo che può essere lasciato solo. E perciò gli annacquati politici “progressisti”, inebriati dal lusso delle loro decorate e ostentate dimore natalizie, scelgono la confortevole e complice prudenza del singhiozzo: «la giustizia farà il suo corso, siamo garantisti».

Chi oggi applaude o tace non sta “aspettando gli accertamenti”. Sta dicendo che il problema non è il genocidio, ma chi lo nomina; non è l’occupazione, ma chi la contrasta; non è la violenza coloniale, ma chi non si inginocchia. È tutto insieme un mondo decadente, in putrefazione.

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