Lo spettacolo del genocidio certificato

di Pasquale Liguori


Mentre Gaza viene rasa al suolo, le Nazioni Unite hanno ritrovato la voce. Dichiarano che sì, c’è genocidio. Che a Gaza c’è carestia, persino “prevedibile e prevenibile”. Lo scrivono in un rapporto ufficiale, lo dichiarano nei briefing. Due anni di massacri sistematici, di fame amministrata, di bambini, donne e anziani uccisi, di case, scuole, luoghi di culto e ospedali ridotti alla polvere, e adesso arriva la verità protocollata. Non per fermare, non per impedire, ma per mettere agli atti. Non per salvare vite, ma per salvare la faccia. Il diritto internazionale non è crollato a Gaza: attraverso le sue istituzioni, ha funzionato alla perfezione. È servito a differire, a coprire, a lasciare che la catastrofe maturasse. Quando tutto è già compiuto, pronuncia la parola proibita sdoganata con il timbro dell’istituzione, come se fosse una scoperta. Non è un atto di giustizia: è un atto notarile, un poter dire “noi l’avevamo detto”. Il linguaggio diventa così certificazione postuma e autoassoluzione dell’Impero che manovra quelle stesse istituzioni. È il certificato di coscienza di chi ha guardato altrove mentre la macchina della distruzione completava il suo compito.

A rendere grottesco questo teatro, nello stesso giorno scorrono le immagini della cosiddetta flottiglia umanitaria. Barchette che avanzano verso Gaza, salutate come simbolo di coraggio civile, celebrate come testimonianza del fatto che “qualcuno ci prova”. Non è tanto chi vi partecipa, molti in buona fede e rischiando la pelle, a costituire il problema: è il valore attribuito alla scena. È lo stesso meccanismo della dichiarazione Onu, quello di un rito di autoassoluzione e spettacolarizzazione. Non cambia nulla sul campo, non scalfisce la crudeltà israeliana, non restituisce acqua, pane, ospedali ai palestinesi. Ma tutto ciò consente, ancora una volta, di sentirsi buoni, “dalla parte giusta”. Un gesto che produce immagini per il consumo occidentale: lo spettacolo della coscienza pulita. Un surrogato di resistenza estetizzato, brandizzato, funzionale a preservare l’ordine del capitale, diventandone cornice morale. Capitale che, nel frattempo, lui sì che veleggia verso lo sterminio compiuto.

La verità non confessata è che siamo autori, non semplici complici, di questo genocidio. Con i nostri governi, le nostre armi, le nostre basi militari, i nostri finanziamenti, i nostri voti nei consessi internazionali, nazionali, regionali, comunali. Con i nostri media, giuristi e opinion makers che da due anni si sciacquano la bocca con le parole “diritto internazionale” e “umanità” a supporto di iniziative tardive e cortei pluralisti. Il sumud ridotto a marchio da esibire, bandiere e kefie brandite come accessori di chissà quale scudetto vinto. Le piazze, in larga parte prive di cultura politica, costruite per candeggiare la coscienza. Le stesse figure, sempre le stesse, che dai social e dalle televisioni pontificano senza tregua. Autoreferenziali, recitano un cinico copione: non per liberare la Palestina, ma per mettere sé stessi al centro, per occupare la scena, per farsi riconoscere come garanti morali. Paladini bianchi di un diritto che non difende nessuno, di un umanitarismo che copre la fame, di una legalità che serve solo a prolungare l’ingiustizia. Non sono voci marginali: sono ingranaggi centrali della macchina che regola il consenso, normalizza lo sterminio e lo traduce in rappresentazione morale.

Ed è qui che emerge un altro inganno: l’idea che la critica sia sterile se non si accompagna a una proposta immediata e confezionata. È il riflesso di una cultura autoassolutoria che neutralizza l’analisi, pretendendo soluzioni pronte all’uso e delegando sempre ad altri la responsabilità di pensare e di agire. Ma l’analisi radicale non è un lusso: è già azione, è la base indispensabile per ogni progetto di trasformazione. Senza questo momento di decostruzione e di smascheramento, non esiste possibilità di prassi: resta solo la ripetizione dei rituali che confortano e preservano l’ordine coloniale.

La flottiglia diventa così emblema perfetto di questa società malata: un corteo sull’acqua che non scalfisce l’assedio, ma che regala al pubblico occidentale l’illusione di partecipare senza però ‘sporcarsi’.

Israele è un’entità canaglia, fondata sulla pulizia etnica, che proclama apertamente di voler cancellare i palestinesi. I governi occidentali, i nostri soldi la armano, la finanziano, la coprono. Le bombe portano i nostri marchi, i droni le nostre tecnologie, le banche i nostri capitali. E mentre la macchina coloniale esegue il suo compito, i nostri giuristi, i nostri intellettuali, i nostri campioni dell’umanitarismo vendono lo spettacolo della coscienza: barchette, conferenze stampa, hashtags.

La catena logistica del genocidio è nostra e il diritto internazionale ne è la copertura. Le carte Onu che arrivano ora non sono denuncia, ma assoluzione preventiva. È qui che va detto senza ambiguità: si tratta del linguaggio che depoliticizza, che neutralizza, che trasforma il massacro in atto giuridico. È il cuore macabro della “comunità internazionale”: registrare lo sterminio come si registra un contratto.

La verità è che la Resistenza palestinese, con il suo sangue versato, è l’unica forza che ha interrotto l’automatismo della catena coloniale. Non i nostri atti simbolici, non i cortei di autocelebrazione. È la Resistenza, con il suo sacrificio, che smaschera la bassezza morale dell’Occidente, la vergogna del suo diritto.

Il fiore palestinese sboccia sulle macerie che noi abbiamo contribuito a produrre. La sua esistenza è la sola denuncia credibile della nostra civiltà fallita. Per questo oggi non abbiamo alcun diritto di giudicare, di prescrivere, di misurare. Abbiamo solo il dovere di tacere la nostra ipocrisia, di smettere di fornire armi, di sciogliere le catene del nostro sistema che nutre il genocidio.

La critica, per quanto scomoda, è parte di questo compito: non un diversivo, ma la condizione necessaria per rifiutare le illusioni e aprire spazi di alternativa. Non serve attendere eroi né applaudire messinscene rassicuranti. Serve il lavoro ostinato e collettivo, invisibile e tenace, di chi non si accontenta del consumo di immagini ma mira a destabilizzare l’ordine coloniale alle sue fondamenta.

Tutto il resto è spettacolo. Ed è lo spettacolo che copre lo sterminio.

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