di Pino Arlacchi*
Ho imparato molto lavorando con l’Iran durante il mio mandato all’ONU. E la mia testimonianza può forse aiutare a capire cosa succede oggi. Il mio osservatorio era privilegiato non solo per la mia posizione istituzionale, ma anche perché provenivo dal paese occidentale più simile all’ Iran.
Italia ed Iran sono accomunate dal fatto di possedere una società civile matura, vibrante, creativa, che riesce ogni tanto ad esprimere un governo che la rispecchia. Ma è anche una società sfortunata, dentro cui alberga un male incurabile che la corrode. Mi riferisco alla classe dirigente di pessima fattura che governa – pur con qualche significativa interruzione – i due Paesi negli ultimi decenni. Una leadership scadente, prodotta da un residuo melmoso sottostante, una “società incivile” minoritaria e retrograda, che viene infiammata da capi spregiudicati e corrotti che stroncano i tentativi di cambiamento.
Ma andiamo con ordine, ed iniziamo dal privilegio che ho avuto nell’incrociare il mio mandato con quello di Mohammad Khatami, il Presidente più aperto e progressista della storia dell’Iran. Ha lasciato un segno nella mia memoria quella limpida mattina del gennaio 1998 nella quale l’ambasciatore iraniano a Vienna, Mohammad Amirkhizi, mi invitava nel suo Paese, a nome del Presidente, per un soggiorno di una settimana. Avrei potuto vedere con i miei occhi lo sforzo che la Repubblica islamica stava compiendo al confine con l’Afghanistan per ostacolare l’ingresso degli oppiacei nel suo territorio, e quindi in Europa. “Abbiamo dislocato migliaia di guardie sul confine afghano per sorvegliare un muro lungo duemila chilometri costruito contro trafficanti armati fino ai denti. Una lotta per impedire il rifornimento di droga ai nostri tossicodipendenti, ed a quelli europei, che rappresentano il mercato più grande, quello finale. Una lotta che ci costa 300-400 vittime all’anno in scontri sanguinosi con i cartelli afghani, e di cui nessuno in Occidente sa nulla”.
Arrivato a Teheran con in mente l’immagine di un paese cupo e repressivo, alla mercè di oscurantisti irriducibili, fui obbligato a rovesciare le mie aspettative. Non avrei mai creduto di potermi un giorno ritrovare – proprio io, un avanzo del ’68 – in un’atmosfera così elettrizzante. La società iraniana danzava sull’orlo del cambiamento favorito dalla schiacciante vittoria elettorale dei riformisti nel maggio 1997. Erano esplosi oltre 200 giornali indipendenti che vendevano milioni di copie e pubblicavano interviste con ex-prigionieri politici e critiche taglienti al sistema giudiziario controllato dagli Ayatollah più retrivi. Le librerie traboccavano di titoli prima impensabili. Le assemblee studentesche, i caffè intellettuali, la nascente biosfera, erano luoghi di dibattiti appassionati e di rivendicazioni libertarie. Le donne avevano iniziato a rifiutare il velo, fondavano associazioni per i loro diritti ed avevano preso d’assalto le università rappresentando il 65% degli studenti di medicina e il 70% nelle scienze umane. Per la prima volta nella storia iraniana, i cittadini potevano eleggere direttamente i loro consigli comunali. Le donne venivano elette in massa, diventando sindache di centri rurali e assessori nelle metropoli.
Khatami ed altri Ayatollah progressisti (ce n’erano allora parecchi in Iran) favorivano questa rivoluzione e si muovevano in autonomia rispetto a Khamenei, l’incerta Guida Suprema, che è la stessa di oggi. I riformisti avevano cacciato in un angolo gli ultras khomeinisti ed i Pasdaran che avevano dominato l’Iran nel ventennio precedente. Il loro trionfo elettorale era stato una rivoluzione popolare. Khatami aveva vinto con il 70% dei voti con un’affluenza dell’80%.
“Professor Arlacchi, lei è arrivato all’ONU proprio a ridosso della mia elezione. Dobbiamo ora lavorare assieme non solo sul tema della droga, ma su un argomento più largo: quello del dialogo tra civiltà, e tra il mio paese e l’Occidente. Conosco la sua biografia, e so che non si tirerà indietro”. Fu questo il saluto di Khatami al nostro primo incontro.
“Può contare su di me e sulle Nazioni Unite. Dobbiamo dare una risposta a quelli che parlano di scontro di civiltà (allusione alla tesi Samuel Huntington, allora molto popolare) dimostrando come è vero il contrario e fornendo un esempio concreto. Proporrò al Segretario generale una iniziativa permanente dell’ONU con questa intestazione, e rivolgeremo a questo scopo la piattaforma della lotta anti-droga che ho appena costruito”.
Finito il colloquio ufficiale, mi congratulai con lui per l’intervista “rivoluzionaria” che aveva appena rilasciato alla CNN, dove Khatami esprimeva “rispetto per il grande popolo e la grande nazione dell’America” ed auspicava appunto “il dialogo tra civiltà”. Il Presidente mi rispose che al momento non era arrivata alcuna risposta da Clinton, e che l’alleggerimento di sanzioni su pistacchi e mandorle non gli sembrava un segnale adeguato.
Nei giorni successivi visitai il confine con l’Afghanistan e riscontrai che quanto Amirkhizi mi aveva detto rispondeva a verità. C’erano davvero migliaia di guardie di frontiera che morivano a centinaia per impedire alla droga afghana di entrare in Iran e poi in Occidente attraverso la Turchia. Mi venne l’idea di sollecitare una fact finding mission del Parlamento europeo che certificasse il sacrificio dell’Iran per conto dell’Europa. Renzo Imbeni, un mio amico e collega di partito che presiedeva la Commissione esteri di Bruxelles, guidò la missione, il cui rapporto venne approvato all’unanimità dalla Commissione sui narcotici, una specie di Parlamento globale delle politiche antidroga che si riunisce ogni anno a Vienna.
Ma eravamo in piena epoca unipolare, e la strada più sicura per ottenere un vero passpartout universale era quella degli Stati Uniti, con i quali avevo stabilito un eccellente rapporto tramite lo Zar americano antidroga, McCaffrey. Clinton in persona aveva scritto una lettera di apprezzamento nei miei confronti a Kofi Annan. Il Presidente mi chiese di chiarirgli la mia proposta di un negoziato segreto USA-Iran che sarebbe sfociato in una conferenza mondiale, da tenere a Teheran, sulla cooperazione antidroga tra Occidente ed Iran. Un evento per il quale – per la prima volta dopo la crisi degli ostaggi dell’ambasciata americana nel 1979-80 – avrebbe rimesso piede in Iran una delegazione americana al massimo livello. Clinton mi sollecitò a fare presto. Il suo mandato era agli sgoccioli, e la prospettiva di concluderlo alla grande, con la riapertura dei rapporti diplomatici con l’Iran, sembrava attirarlo assai. Mi domandò quali fossero le condizioni dell’Iran. Gli risposi che chiedevano soltanto una autocritica ufficiale sul colpo di Stato del 1953, organizzato dalla neonata CIA, che aveva rovesciato il governo democratico di Mossadegh, riaprendo la strada alla dittatura dello Scià fino al 1979. L’ autocritica fu prontamente effettuata, il negoziato ebbe successo, e si stabilì la data dell’evento per la fine del 1999. Ma la sorpresa arrivò dal lato di Khatami, costretto a chiedere un rinvio della conferenza dall’entrata in campo di una feroce reazione dei clerico-fascisti al biennio di riforme. Il Presidente era stato minacciato di morte, e non intendeva legare il suo nome al bagno di sangue che avrebbe salutato l’annuncio di una rinnovata presenza del Grande Satana sul suolo dell’Iran.
Ma la reazione alla Primavera persiana, al dialogo di civiltà ed alla svolta tra l’Iran e gli Stati Uniti non si limitò all’Iran. Con George Bush erano arrivati al potere l’equivalente americano dei Pasdaran, i fanatici neo-cons, che si impadronirono gradualmente del Dipartimento di Stato e trascinarono la data della nostra conferenza fino a quando, l’8 settembre del 2001, il loro amico inconfessato, Al Queda, mise fine a tutto. L’Iran faceva parte di nuovo dell’Asse del Male, e gli Stati Uniti erano di nuovo l’incarnazione di Satana.
Il Fatto Quotidiano | 17 luglio 2025