di Pino Arlacchi - Fatto Quotidiano
Il cessate il fuoco tra Israele e Iran è più l’inizio di una nuova fase del conflitto che la sua conclusione. Gli Stati Uniti sono intervenuti per impedire che il fallimento dell’attacco israeliano diventasse troppo evidente e producesse danni più profondi.
I due obiettivi dell’aggressione israeliana – la distruzione delle installazioni nucleari iraniane e il crollo del regime – erano stati platealmente mancati, ed era meglio ripiegare usando il classico espediente del face saving: salvare la faccia e ritirarsi urlando di avere vinto, e invitando l’Iran a fare altrettanto. Teheran ha accettato perché aveva anch’essa, comunque, subito molti danni, e aveva anch’essa bisogno di ricaricare il fucile.
Al di là degli sviluppi a breve (nuovi bombardamenti da entrambi i lati, qualche ulteriore barbaro assassinio di scienziati e civili) è probabile che questo conflitto assuma gradualmente il profilo di una vera e propria guerra di posizione, la cui posta può essere la sconfitta storica del nemico, l’azzeramento definitivo della sua capacità di minaccia e di distruzione. Questo tipo di guerra è radicalmente diversa da quelle che Israele è abituata a fare. E a vincere grazie alla sua tecnologia militare avanzata, alla sua possibilità di scaricare in poco tempo il massimo della sua potenza offensiva, e grazie all’appoggio senza riserve degli Stati Uniti.
Ciò che conta, in una guerra di posizione, non sono gli armamenti presenti al momento sul terreno, né il loro livello tecnologico, e neppure le risorse militari, finanziarie e politiche in senso lato da gettare rapidamente nella contesa. Ciò che è davvero decisivo sono quelle che gli strateghi militari chiamano capabilities. Che sono le risorse ultra-hard, i fattori materiali che stanno dietro e al di là dei campi di battaglia. Parlo di territorio, popolazione, apparato industriale, risorse naturali, disponibilità di fonti di energia, e capacità di resistenza di una popolazione (che non è un’entità fisica, ma è come se lo fosse, vista la sua dimostrata crucialità).
Stiamo parlando dei fattori che rendono un paese come la Russia praticamente invincibile in un conflitto convenzionale, e che in uno scontro prolungato con Israele conferiscono all’Iran una superiorità schiacciante. Questa non è un’opinione o un wishful thinking, ma una valutazione basata su numeri e fatti che favoriscono sempre più l’Iran man mano che il conflitto si prolunga.
I numeri sono spietati: l’Iran ha 92 milioni di abitanti contro i 9 milioni di Israele – dieci volte di più. Il territorio iraniano è 76 volte più grande di quello israeliano. In una guerra prolungata, significa che l’Iran può permettersi di perdere molte più persone e risorse, mentre può nascondere le sue installazioni militari in un territorio immenso, rendendole immuni dagli attacchi aerei. La leva militare dell’Iran fa affluire alle forze armate un milione 400 mila cittadini all’anno, contro i 131 mila di Israele. Le reclute israeliane, per giunta, sono il 47% di quelle che dovrebbero essere, causa l’esenzione dal servizio militare dei religiosi ultra-ortodossi e degli israeliani di origine araba che sono il 21% della popolazione.
L’economia iraniana non è una oil economy alla mercé dei mercati degli idrocarburi. È un’economia “tosta”, con la più larga base industriale di tutto il Medio Oriente, costruita per resistere alle sanzioni e alle guerre. Le sanzioni hanno mostrato un risvolto paradossale. In Iran hanno funzionato come una barriera doganale non voluta, nutrendo le produzioni domestiche e portando l’agricoltura al 90% dell’autosufficienza, l’industria farmaceutica al 99, e quella militare al 93%. Negli ultimi 30 anni il Pil iraniano è cresciuto – nonostante sanzioni, malgoverno e corruzione dei Pasdaran degli Ayatollah – in media del 3% all’anno.
L’orgoglio nazionale degli iraniani è quasi senza confronti. L’ho visto con i miei occhi – da cittadino di un paese dalla sovranità perpetuamente violata da qualunque prepotente di passaggio – durante il mio mandato Onu. La fierezza patriottica degli iraniani è quella di uno degli otto popoli del pianeta che i colonialisti occidentali non sono mai riusciti a sottomettere. Un popolo non bellicista, che da quasi 300 anni non inizia una guerra di aggressione e che si è sempre difeso con successo dagli attacchi dei poteri imperialisti. Negli anni Ottanta, l’Iran ha sopportato otto anni di scontro devastante contro un Iraq armato dalle potenze occidentali. Ha incassato oltre mezzo milione di perdite civili dimostrando di saper resistere anche quando tutto sembrava perduto.
L’economia israeliana è quella di un paese esteso quanto l’Emilia-Romagna e popolato quanto la Lombardia, che dipende dalla tecnologia, dal commercio internazionale e, soprattutto, dal sostegno americano. Israele è una potenza tecnologica, non industriale, che manca della capacità di costruire molte delle piattaforme, armi e munizioni di cui ha bisogno. La dipendenza di Israele dalla macchina mangiasoldi dell’industria militare americana fa sì che debba spendere fortune per difendersi, mentre l’Iran può produrre armi a basso costo, in grandi quantità e per periodi di tempo indefiniti.
L’Iran può costruire droni kamikaze che costano 20-50.000 dollari l’uno, mentre ogni missile israeliano lanciato per abbatterli costa molto di più. I missili iraniani costano ciascuno 200-500.000 dollari, ma per intercettarli Israele deve usare sistemi che costano da 1 milione a 3 milioni di dollari per ogni missile. L’Iran può produrre 2-5.000 droni e 200-400 missili balistici al mese, spesso sfornati da fabbriche sotterranee, e detiene un arsenale di 3 mila missili, 2 mila dei quali in grado raggiungere Israele. Tutte cifre suscettibili di aumentare nel corso di una guerra di posizione.
Israele invece deve importare molti componenti e ha fabbriche concentrate che possono essere facilmente danneggiate. Quando è risultato che l’Iran aveva lanciato più di 370 missili in quattro giorni, tra il 9 e il 13 giugno, Israele ha dovuto chiedere immediatamente nuove forniture agli Stati Uniti perché stava finendo le munizioni.
L’aiuto dello Zio Sam a Israele è stato sempre pressoché illimitato. Il 70% del costo delle guerre israeliane è stato pagato, e viene ancora pagato, da Washington, dove la lobby ebraica imperversa da decenni. Ma il genocidio di Gaza sta cambiando le cose. Il 53% degli americani ora ha un’opinione negativa di Israele, e solo il 36% sostiene gli aiuti militari. Tra i giovani sotto i 30 anni, solo il 16% è favorevole agli aiuti militari a Tel Aviv. Altri sondaggi mostrano come i sostenitori di Israele si sono ridotti al 30% degli americani: la cifra più bassa da 25 anni. Il Congresso americano deve anche pensare all’Ucraina, alla Cina, alla Nato e ad ammodernare le armi nucleari. È per queste ragioni che la protezione dei crimini israeliani tramite il veto Usa al Consiglio di Sicurezza, usato 42 volte, diventa sempre più difficile. In definitiva, Israele non può vincere una guerra che duri più di un anno contro l’Iran, nemmeno con l’aiuto degli Stati Uniti.
di Pino Arlacchi | Il Fatto Quotidiano | 2 luglio 2025