Pino Arlacchi : Trump e il colonialismo Usa nel segno di Theodore Roosvelt

18 Gennaio 2025 10:00 Pino Arlacchi

Di Pino Arlacchi | 14 Gennaio 2025 | Il Fatto Quotidiano

La vecchiaia e la morte sono un po’ un ritorno alle origini, ed è questo che sta avvenendo negli Stati Uniti con Trump, presidente della fase terminale dell’impero americano. Con Trump, l’America torna alle sue radici profonde. Che non sono imperiali nel senso di una pretesa di governo del pianeta, ma coloniali. La differenza tra imperialismo e colonialismo non è di poco conto. L’imperialismo è universale. Il colonialismo è nazionale.

Con tutta questa storia di annettersi Canada, Panama e Groenlandia – e di dare magari un colpetto al Venezuela che “siede su una montagna di petrolio che noi dobbiamo pagare” – Trump non sta facendo altro che richiamare in vita l’istinto di predazione del loro continente che ha mosso i suoi primi predecessori.

L’impero americano non è nato come tale, ma da un progetto di sopraffazione concepito da un gruppo di colonie d’insediamento nate in un’età di poteri coloniali e parte di un impero coloniale, che vedevano se stesse come una replica delle nazioni da cui provenivano. Il ceto di settlers che le guidava si era affermato tramite lo sterminio delle popolazioni indigene e l’importazione di schiavi dall’Africa. L’America delle origini era proiettata verso l’accaparramento dei territori contigui alle 13 colonie iniziali, ed era refrattaria all’idea di un impero universale.

Attenzione all’imbroglio sulla nascita degli Stati Uniti. La Rivoluzione americana non fu una anticipazione di quella francese, ma un evento radicalmente reazionario. Fu una rivolta di proprietari di schiavi ribellatisi a una madrepatria che diventava anti-schiavista allo scopo di proteggere la propria miserabile ricchezza.

La Costituzione americana delle origini tutela, è vero, la ricerca della felicità, ma è la felicità dei Padri fondatori di una repubblica fondata sulla schiavitù, che è codificata in alcuni dei suoi articoli più importanti, modificati solo dopo la guerra civile del 1865, ma rimasti per un altro secolo nella testa dei suoi governanti.

I primi presidenti americani non fecero altro che scimmiottare i sovrani europei, massacrando i nativi, invadendo e annettendo territori altrui come nel caso del Texas, del New Mexico, della California e delle Hawaii, comprando interi Stati dalle potenze europee, come nel caso della Louisiana, della Florida, dell’Oregon e dell’Alaska, o stabilendo con la forza proprie colonie e avamposti nel canale di Panama, nelle Filippine e a Cuba. Solo per poco non riuscirono ad annettersi anche il Canada.

La forza motrice del colonialismo degli Stati Uniti era il capitalismo di rapina impersonato oggi da Donald Trump. Trump non è un’anomalia. È l’erede di tutti i presidenti USA dalla fondazione della Repubblica fino ai primi del Novecento. È la fotocopia di due presidenti sbruffoni, populisti, razzisti e ultra-colonialisti come Andrew Jackson e Theodore Roosevelt. Stesso costume di appello diretto al popolo scavalcando le istituzioni, stessa enfasi sull’uomo comune bistrattato dalle élite, stessa aggressione degli avversari politici mascherata da vittimismo.

Un bilancio poco elegante ma veritiero del tenore dei rapporti tra il governo americano e i “baroni ladri” dell’epoca coloniale rediviva con Trump, ci è stato fornito nel 1935 da un celebre “pentito” come il generale Smedley Butler, il marine più decorato della sua generazione: “Sono stato di aiuto nel fare di Haiti e Cuba un posto decente per i profitti ammassati dai boys della National City Bank. Sono stato di aiuto nello stupro di una mezza dozzina di repubbliche centro-americane per conto di Wall Street. Sono stato di aiuto tra il 1909 e il 1912 nel purificare il Nicaragua per conto della banca internazionale dei Brown Brothers. Nel 1916 ho “illuminato” la Repubblica Dominicana per conto degli interessi del cartello americano dello zucchero. Nel 1903 ho aiutato l’Honduras a diventare “praticabile” per le compagnie americane della frutta… Guardando indietro a tutto ciò, sarei stato in grado di dare qualche dritta ad Al Capone. Ma il massimo che lui avrebbe potuto fare sarebbe stato quello di gestire i suoi racket in tre distretti cittadini. Noi Marines operiamo in tre continenti .

L’impero americano è stato prefigurato negli anni 10 del Novecento dal presidente Wilson – un convinto segregazionista diventato internazionalista – e poi incarnato per la prima volta negli anni 40 da Franklin Delano Roosevelt, autore di un progetto compiuto di governo mondiale da far gestire alle Nazioni Unite e degradato nel dopoguerra a un impero ristretto al cosiddetto “mondo libero” degli USA e dei loro satelliti.

Il capitalismo liberale che ha animato il predominio americano è stato osannato come il punto di arrivo, la “fine della storia”, ma la festa, nonostante i tempi supplementari della Belle Epoque di Clinton, è finita nel 1989. E Biden è stato l’ultimo presidente imperialista, illuso di governare il mondo come dispensatore del bene supremo della sicurezza e non come titolare di un racket di protezione mafiosa.

Perché mafiosa? Perché la differenza tra la mafia e la polizia è che la polizia non produce le minacce dalle quali ci protegge.

Come finirà? Sarà la solita ripetizione farsesca della storia? Credo di sì. Quelli di Trump sono vaneggiamenti sulla tomba di un potere imperiale ormai svanito, e che accelereranno invece di rallentare la corsa verso la fine. Perfino i servitori più fedeli dello zio Sam come gli europei e i giapponesi saranno costretti a dissociarsi da questi deliri e a guardarsi intorno.

Ma i vaneggiamenti di un bullo nazionalista, protezionista e ben armato non sono comparabili a quelli di un nullatenente. Penso che Trump finirà col danneggiare l’America e renderla ancora più piccola di quanto sia già diventata. Ma non credo che l’alt gli arriverà dalla sezione liberal-internazionalista dell’establishment a stelle e strisce. Dopo i primi segnali di reale pericolosità che potrebbero arrivare con i 100 decreti esecutivi dei primi 100 giorni, sarà lo stato profondo, per conto dell’uno per cento che comanda l’America, che deciderà se sbarazzarsi di lui o se imporgli una retromarcia.

Questa analisi non è wishful thinking. È un distillato della storia degli Stati Uniti.

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