Con le minacce di attacco militare a tre paesi delle dimensioni del Venezuela, della Colombia e del Messico, Trump ha rotto due tradizioni. La prima è quella che riguarda gli Stati Uniti.
Washington si è costantemente astenuta dall’invadere o minacciare militarmente le grandi nazioni del proprio continente. Ha preferito la strada dell’interferenza “pesante”: colpi di Stato, operazioni paramilitari, neutralizzazione di leader e movimenti anticoloniali, stravolgimento di elezioni e di politiche non gradite. Il lavoro sporco della repressione anticomunista su vasta scala è stato lasciato, durante la Guerra fredda, ai generali cileni, argentini, brasiliani e di altre nazioni.
Altro che Guerra fredda! Il bilancio dell’operazione Condor in America Latina è stato di oltre due milioni di morti. Ma l’invasione vera e propria è stata portata a termine solo due volte, a Panama nel 1989 e a Grenada nel 1982. Eccezioni che confermano la regola. Si trattava di paesi minuscoli, con popolazioni inferiori al milione di abitanti e forze armate simboliche. L’invasione di Panama coinvolse 26 mila soldati americani contro un paese di due milioni di abitanti e 75 mila chilometri quadrati. Grenada, con i suoi 109 mila abitanti e 340 kmq. era un po’ più grande dell’Isola d’Elba e Pantelleria messe assieme.
Venezuela, Colombia e Messico sono tutta un’altra storia. A cominciare dalla scala, che è immensa. Il Venezuela conta 30 milioni di abitanti su 916 mila chilometri quadrati (tre volte l’Italia), con una geografia che include giungle amazzoniche impenetrabili, le montagne andine, le pianure dell’Orinoco. La Colombia ha 52 milioni di abitanti su 1 milione 114 mila chilometri quadrati, con un territorio frammentato da tre catene montuose e vaste zone di foresta tropicale dove lo Stato colombiano stesso ha faticato per decenni a stabilire il suo controllo. Quanti soldati americani servirebbero per occupare Bogotá, Medellín, Cali, Cartagena, Barranquilla e simultaneamente pattugliare le montagne e le giungle dove si sono combattute guerre per generazioni? Cinquecentomila? Ottocentomila? E per quanto tempo?
I numeri del Messico, poi, sono imponenti: 130 milioni di abitanti su quasi 2 milioni di chilometri quadrati. Un confine terrestre di tremila chilometri con gli Stati Uniti che renderebbe qualsiasi occupazione militare un incubo logistico permanente e un danno materiale insopportabile vista l’integrazione economica tra i due paesi.
Il Pentagono è perfettamente consapevole di tutto questo. I verdetti dei war games sul tema dell’invasione e dell’occupazione anche parziale di territori più estesi dell’intera Europa occidentale, sono univoci. Si tratterebbe di un’impresa oltre il limite della follia, e comunque non alla portata delle forze armate e della nazione statunitense.
Interventi militari massicci contro Venezuela, Colombia o Messico produrrebbero disastri strategici che distruggerebbero la capacità americana di operare in altre parti nel mondo, esaurirebbero il bilancio della difesa e provocherebbero crisi politiche interne catastrofiche. Nessun capo di stato maggiore congiunto consiglierebbe mai queste operazioni. E il deep state, in ultima analisi, non le consentirebbe.
Le minacce di Trump, tuttavia, bypassano questa analisi razionale delle forze in campo. Quando il presidente degli Stati Uniti minaccia pubblicamente invasioni, quando dispiega una flotta da guerra e parla di operazioni militari, i governi minacciati non possono scommettere sulla razionalità del sistema decisionale americano. Devono prepararsi per lo scenario peggiore.
L’impossibilità Usa di vincere un conflitto convenzionale contro i tre paesi non riduce, ma aumenta il loro carico complessivo di rischio. Washington può optare per bombardamenti aerei prolungati senza invasione terrestre, impiego di forze speciali per assassinii mirati, supporto massiccio a forze mercenarie, fino all’uso di armi chimiche o biologiche in scenari estremi.
Gli Stati Uniti non invaderanno il Venezuela, ma possono bombardare le infrastrutture petrolifere, tentare un blocco navale e l’assassinio della leadership politica. Possono armare l’opposizione fino a provocare focolai di guerra civile. Non occuperanno il Messico e la Colombia, ma possono lanciare strikes quotidiani con aerei e droni, mettere in piedi formazioni paramilitari in vista di una destabilizzazione che porti al collasso dello Stato.
Questo scenario è tutt’altro che improbabile. È frutto, come abbiamo detto, della rottura di una tradizione yankee di non invasione. Ma esso non può non produrre una seconda rottura, che riguarda le strategie di sicurezza sudamericane. L’America Latina coltiva da oltre un secolo una cultura politica profondamente avversa alle alleanze militari formali. Questa tradizione affonda le sue radici nell’esperienza storica di interventi stranieri, nella memoria degli attacchi statunitensi, e nella diffidenza verso qualsiasi iniziativa che possa limitare la sovranità nazionale o trascinare i paesi in conflitti esterni ai loro diretti interessi.
Il Messico ha elevato il non interventismo a dottrina costituzionale attraverso la Dottrina Estrada, e astenendosi da coalizioni militari. Il Venezuela bolivariano ha sempre privilegiato l’integrazione economica e politica attraverso strumenti come Alba e Petrocaribe, evitando strutture di difesa collettiva che ricordassero il Patto di Varsavia o la Nato. Anche la Colombia, nonostante la stretta partnership con Washington, ha mantenuto la propria autonomia decisionale evitando vincoli di alleanza che trascendessero la cooperazione bilaterale.
Questa cultura politica non nasceva da ingenuità pacifista, ma da calcolo strategico: in un continente dominato dalla potenza schiacciante degli Stati Uniti, le alleanze militari formali avrebbero solo fornito ulteriori pretesti per interventi cruenti.
Le minacce di Trump distruggono i presupposti di questa tradizione. Quando Washington annuncia apertamente l’intenzione di violare la sovranità territoriale, quando schiera flotte di guerra e minaccia invasioni che per quanto impraticabili rimangono possibili come operazioni punitive devastanti, quando utilizza sanzioni economiche come arma di strangolamento esistenziale, il non allineamento cessa di essere strategia razionale per diventare una vulnerabilità fatale. Il trio Venezuela-Colombia-Messico si trova davanti alla necessità immediata di costruire strumenti di sicurezza collettiva che fino a ieri sarebbero apparsi inaccettabili.
La prima risposta può essere il consolidamento delle alleanze politiche esistenti e la loro trasformazione verso dimensioni esplicitamente securitarie.
La Celac esiste dal 2011 come alternativa alla Oas controllata da Washington, ma è sempre rimasta un forum diplomatico senza ambizioni di sicurezza collettiva. La nuova fase richiederà la sua trasformazione in una organizzazione capace di risposta coordinata alle minacce comuni.
Il Venezuela spingerà fortemente in questa direzione, portando l’esperienza delle sue milizie popolari e la partnership con le potenze eurasiatiche. Il Messico non potrà ignorare la necessità di un coordinamento imposta dalle minacce di aggressione Usa.
La Colombia rappresenta il caso più complesso perché la sua alleanza continentale rovescerà decenni di subalternità a Washington, ma un governo come quello di Petro, ideologicamente orientato verso l’integrazione latinoamericana e sottoposto a prepotenze americane crescenti, potrebbe compiere il salto.
Il modello di riferimento non sarà la Nato con i suoi vincoli rigidi di mutua difesa, ma l’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai, l’SCO, che permette livelli variabili di integrazione militare senza obblighi automatici di intervento.
Ma sullo sfondo inizierà a stagliarsi l’opzione più estrema, che resta quella della rottura del tabù nucleare.
*Il Fatto Quotidiano | 18 dicembre 2025