di Chiara Nalli per l’Antidiplomatico
Era il 2007 quando, su suggerimento di mio padre, decisi che l’argomento della mia tesina per il corso di Relazioni Internazionali sarebbe stato il golpe cileno del 1973. Non il golpe in sé, per la verità – ma specificatamente le influenze del governo e delle multinazionali americane (in particolare quelle attive nel settore minerario) sul colpo di stato che rovesciò il governo democraticamente eletto del socialista Salvador Allende per instaurare una delle dittature più spietate e sanguinarie della storia moderna. E per chiarire subito la direzione della mia indagine, sul frontespizio del lavoro stampai in corsivo la mai abbastanza famigerata frase di H. Kissinger: “non vedo perché dovremmo restare a guardare mentre un paese diventa comunista per colpa dell'irresponsabilità del suo popolo: la questione cilena è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli".
Ero consapevole di addentrarmi su un terreno spinoso: la persona che avrebbe valutato il mio lavoro era un alto diplomatico la cui carriera poteva suggerire – se non delle simpatie atlantiste – almeno un atteggiamento fortemente prudente nei confronti di determinati argomenti. Il confronto con le fonti si dimostrò subito complicato. A parte qualche trafiletto commemorativo su giornali che amavano definirsi progressisti, le uniche testimonianze di fatti ed elementi che potevano ricondurre gli eventi dell’11 settembre cileno a influenze americane erano tramandate da partiti, associazioni e riviste di stampo socialista. A me serviva la fonte terza, indipendente.
L’aiuto venne, insperabilmente, dal campo avversario: il Church Report e una serie di altri documenti sulle attività condotte segretamente dalla CIA (e non solo) per conto del governo americano, in Cile e altri paesi: report investigativi commissionati negli anni ’70 dal Congresso americano e de-secretati proprio a partire dagli anni 2000. Grazie a questi documenti riuscii a ricostruire - e in modo incontrovertibile - una serie di strategie adottate in Cile e nel tradizionale schema di molteplici crisi successive: corruzione dei vertici dello stato, isolamento finanziario del paese (nel caso del Cile furono tagliati anche i prestiti della Banca Mondiale), attacchi speculativi alla valuta e altri asset nazionali; fiumi di denaro a supportare organi di stampa e altri strumenti di destabilizzazione sociale: emblematico, nel caso del Cile, fu lo sciopero dei camionisti - pagati a mazzette di dollari - che mise in ginocchio l'economia del Paese.
Gli spunti contenuti nei report ufficiali delle istituzioni americane - per quanto riferiti con un linguaggio diplomatico e indiretto - combaciavano puntualmente con i fatti denunciati dagli organi di stampa socialisti e con i numeri e le date del collasso economico del Paese: il tutto si compose in un puzzle perfetto e il mio lavoro ricevette un grande apprezzamento.
Negli anni, proprio grazie alla pubblicazione dei su menzionati report, gli studi sulle influenze americane nelle vicende che portarono alla destituzione e all’assassinio di Salvador Allende si sono moltiplicati, così come è cresciuto, a buon diritto, lo spazio dedicato dalla stampa occidentale all’11 settembre cileno. Del resto, ammettere e portare alla luce del sole fatti e misfatti, trent’anni dopo, quando la verità non nuoce più ad alcuno, è facile. Forse perfino catartico. Al punto che, in Italia, a partire dalle fine degli anni 2000, sono stati sviluppati alcuni lavori scientifici che collegano, proprio attraverso i fili tentacolari degli interessi statunitensi, le vicende cilene con la situazione politica italiana degli anni di piombo e, in particolare, con alcune operazioni condotte sul suolo italiano da servizi segreti e affini.
L’Italia e il golpe cileno: se volessimo dare una cifra del nostro rapporto culturale con le vicende del Paese sudamericano, potremmo dire che negli ultimi vent’anni la verità sull’11 settembre del 1973 è stata un qualcosa di universalmente cristallino.
Ma politicamente poco rilevante. La pacificazione intorno alla verità storica del golpe cileno, infatti, è coincisa con un altro grande spartiacque della storia - che ha consolidato il nuovo corso della politica estera americana e modificato profondamente il nostro rapporto - in quanto occidentali - con essa: l’attacco alle torri gemelle. Ironia o profezia della Storia: ancora una volta, l’11 settembre.
La svolta politica e culturale impressa a tutto l’occidente dall’11 settembre 2001 non ha bisogno di argomentazioni; politicamente e forse in modo vagamente grossolano, potremmo dire che, da allora, il panorama culturale italiano si è diviso proprio sulla commemorazione di questa data: da un lato, l’11 settembre americano, l’evento che ha definitivamente spaccato il mondo in buoni e cattivi, con l’occidente baluardo di democrazia e libertà che non necessita di troppe giustificazioni per i propri interventi militari in paesi terzi; dall’altro, l’11 settembre cileno, la macchia indelebile sulla coscienza occidentale che, con gli oltre 3000 tra morti e desaparecidos (cui si aggiungono 31.000 vittime di violazioni di diritti umani), in un Paese moderno, democratico e che era così profondamente “europeo” nella composizione etnica e nella cultura, è lì a ricordarci che “i cattivi” della storia sono stati, spesso, solo il rovescio della medaglia delle nostre “democrazie”; sostenuti e perfino imposti dagli interessi occidentali, a scapito della sovranità, della sicurezza e del benessere di altri popoli.
Chi, in questi vent’anni, ha ricordato l’11 settembre cileno e le pesanti ingerenze americane in esso, lo ha fatto anche nella speranza che una vicenda tanto emblematica possa ammaestrare tutti a una lettura critica dei processi storici che ci riguardano più da vicino. Ed è proprio per questo che oggi mi sembra di assistere a qualcosa di politicamente disturbante: ho tutta l’impressione che in questo 2023 di guerra della NATO, quando la verità potrebbe tornare dalle pieghe della storia a risvegliare qualche coscienza, si sia avviato un inquietante processo di revisionismo storico sulle vicende cilene.
Le sirene del revisionismo suonano, non a caso, dalle pagine del Corriere della Sera, colonna portante della propaganda NATO, dal quale un ineffabile Walter Veltroni ci racconta l’11 settembre della “sua generazione”: un riassunto dei mesi del governo Allende e delle atrocità della dittatura Pinochet, seguito dalla rassegna delle esperienze personali dell’autore di cui si fa fatica a spiegare l’utilità. Moltissimi aggettivi e domande che poco hanno a che vedere con il metodo storico, pochi fatti. E, sebbene l’autore citi i documenti de-secretati dal Dipartimento di Stato americano, si guarda bene dall’esporne i contenuti: al più, in uno slancio creativo, Veltroni ci parla del “brodo di coltura del sostegno al golpe da parte dell’amministrazione Nixon”. Molta più precisione viene invece dedicata alla disamina di quelle che, secondo l’autore, sono state le responsabilità del governo Allende, la cui azione sarebbe stata segnata da “riforme ed errori”, tanto da spingerlo sulla fatidica domanda: “la sconfitta di Allende […] e della strada cilena al socialismo era inevitabile?”. E’ così, i colpi di stato capitano, di tanto in tanto; tutto il resto annega in un indefinito “brodo di coltura”.
Il momento più alto dell’intero articolo rimane, in ogni caso, il collegamento tra il Cile del golpe militare e l’Ucraina dei nostri giorni. Che poi, a ben vedere, il collegamento c’è: anche in Ucraina c’è stato un colpo di stato preparato, finanziato e gestito dagli Stati Uniti, nel 2004 e nel 2014. Ma non secondo l’interpretazione di Veltroni, il quale chiosa: “Per noi, che eravamo allora ragazzi, Il Cile diventò un Paese amico. […] Un’intera generazione fece […] della protesta contro quel golpe una ragione di ancoraggio permanente ai valori della libertà e dell’autodeterminazione, così utili anche in questi giorni in Ucraina”. In questa frase c’è tutta la vacuità, l’astrattezza e l’infantilismo della visione del mondo secondo il PD: la loro allucinazione collettiva ha ufficialmente attraversato quarant’anni di storia delle relazioni politiche internazionali.
Nel processo di appropriazione e snaturamento della storia del golpe cileno che Veltroni ha tentato dalle colonne del Corriere della Sera, possiamo rintracciare, del resto, il metodo con cui certa sinistra italiana ha fagocitato, ovunque fosse possibile, ogni spunto di riflessione storica e culturale che si sia offerto al pubblico italiano: appropriandosi di fatti, storie, personaggi e autori; inserendoli, piegati in maniera funzionale, nella propria narrazione del reale, sterilizzati da tutti gli elementi dissonanti rispetto ad essa. Ed è così che la storia di Allende diventa una favola della buonanotte per gli aspiranti militanti del PD, adattata quel tanto che basta a non disturbarne i sogni atlantisti.
Eppure, se i tentativi di revisionismo di fermassero agli scritti di Veltroni, potremmo ancora dirci confortati.
Più preoccupante, a mio parere, sarebbe la legittimazione di una visione rivisitata ed edulcorata del golpe cileno attraverso le istituzioni della politica e della cultura. Un evento organizzato questa settimana a Roma dall’Ambasciata del Cile in Italia e dalla Fondazione Treccani Cultura promette di offrire un’occasione di approfondimento intorno alle cause che portarono alla deposizione del governo di Allende e all’instaurazione del regime militare di Pinochet. Nel programma si attribuisce un forte peso a “l’influenza che altri modelli economici ebbero sulla società cilena a seguito dei terribili fatti dell’11 settembre 1973” e al confronto tra il modello sociale promosso da Allende e quello neoliberista dei “Chicago Boys” - che fu imposto al Cile proprio grazie alla dittatura di Pinochet. Sarei curiosa di sapere se qualcuno dei relatori si sia premurato di chiarire che l’imposizione del modello neoliberista a tutte le economie avanzate e non, nel corso degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, è stato totalmente funzionale agli interessi americani, rispondendo a precisi obiettivi di egemonia economica - e che il Cile fu, in tale contesto, la cavia da laboratorio per testare effetti ed impatti della “nuova” ideologia economica propugnata da Milton Friedman. Certo, la presenza tra gli speaker di Giuliano Amato, alfiere dell’importazione delle politiche neoliberiste in Italia, non mi suggerisce ottimismo. Ma lasciamo il beneficio del dubbio.
Sono del resto convinta che lui e altri relatori non abbiano trascurato di ricordare gli effetti disastrosi che le politiche neoliberiste furono in grado di produrre sull’economia cilena nell’arco di appena un decennio: un altro grande insegnamento della storia cilena, che sarebbe stato prezioso per i popoli europei nel corso degli anni ‘90, quando privatizzazioni, distruzione dello stato sociale e precarizzazione dei diritti sociali furono imposti, a colpi di propaganda, anche al di qua dell’Atlantico.
La storia insegna ma non ha scolari, diceva Gramsci. Forse il vero problema è come la storia viene raccontata alle masse: raccontare oggi la storia del golpe cileno con le sue cause, i suoi mandanti e i loro interessi più o meno evidenti, le manovre economiche e quelle politiche e mediatiche, i suoi crimini e suoi effetti devastanti, ha un valore inestimabile. Contro ogni revisionismo e contro ogni infantilismo interpretativo.
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