Amarcord. Quando parlare di "sovranità limitata" a sinistra non era un delitto


di Paolo Desogus*

12 maggio 2020


L'uso del ricordo per filtrare il proprio sguardo sul presente politico dovrebbe essere lasciato a chi vanta la posizione, l'autorevolezza e l'esperienza di "maestro". Permettetemi un'eccezione. Negli anni Novanta, gli anni in cui frequentavo il Liceo, condividevo con alcuni amici un forte interesse per quella fase storica chiamata impropriamente "strategia della tensione". Facevamo incetta di articoli, interviste, documentari. Ci scambiavamo informazioni. Tentavamo ragionamenti, spesso ingenui, per comprendere quello che era per noi un passato recente, direttamente vissuto dai nostri genitori. Avevamo piena coscienza che quella stagione era strettamente legata al contesto della guerra fredda e al tentativo di tenere i comunisti il più possibile lontano dal potere. Il nostro paese, ci ripetevamo, era una democrazia a sovranità limitata. Pesavano sull'Italia la sconfitta della Seconda guerra mondiale, la presenza militare degli Stati uniti e i fortissimi interessi geopolitici della Nato.

Parlare di sovranità limitata a sinistra non era affatto un tabù. Nessuno ci avrebbe mai detto che eravamo dei sovranisti. La questione intorno al fattore K era largamente nota a chi aveva un po' di coscienza politica. Così come era forte, tra quelli che come me appartenevano alle file della sinistra, un conseguente antiamericanismo.

È in questo contesto che io come tanti altri ho sposato la causa europeista. Personalmente ritenevo che la costruzione di un'organizzazione sovranazionale ci avrebbe liberati dal peso e dalla sudditanza americana. Non sapevo nulla di questioni economiche (e ne so poco anche oggi, sia chiaro), nulla di moneta, di separazione tra Banca d'Italia e Ministero delle finanze. Non sapevamo che alla subalternità dell'Italia agli Stati uniti si stava aggiungendo la subalternità ai mercati. Del resto eravamo reduci da Tangentopoli a cui era stata attribuita la responsabilità del debito pubblico, degli sprechi e dell'andamento dell'economia. D'Alema pubblicava un libro intitolato "Un paese normale", in cui si tratteggiava un futuro in cui l'Italia sarebbe stata libera dal peso della guerra fredda, diventando finalmente maturo per assumere la veste di media potenza economico-industriale al fianco - alla pari - di Francia, Germania e Gran Bretagna. L'ingresso nella moneta unica e le riforme economiche che venivano effettuate in quella fase, e che inizialmente ci erano parse buone, avrebbero dovuto infatti consolidare e migliorare la nostra posizione politica, tecnologica e industriale rispetto agli altri paesi dell''eurozona.

Negli anni Novanta non si parlava di cessione di sovranità, ma di condivisione, di costruzione insieme agli altri paesi europei di uno spazio politico unitario, capace anche di assumere un ruolo geopolitico e militare alternativo a quello americano. Solo Rifondazione comunista aveva posizioni critiche, che tuttavia ci parevano strumentali, nonché sbagliate poiché simili a quelle della destra berlusconiana.

Sappiamo come è andata a finire: Rifondazione comunista aveva ragione. L'Italia non si è mai liberata della sudditanza americana. Per molti versi la situazione politica del paese è anzi oggi di gran lunga peggiorata. Se prima, in occasione della formazione del governo, il Presidente della Repubblica, una volta sentiti i capigruppo, aveva l'abitudine di consultarsi con l'ambasciata americana, dalla formazione dell'UE il paese ha cominciato a doversi confrontare anche con le cancellerie di Francia e Germania. E non senza conflitti: come in occasione della formazione del primo governo Conte, risolto dopo le pressioni americane in contrasto con quelle tedesche e francesi.

La fine della guerra fredda e il "dopostoria europeista" non ci hanno liberati: a tutt'oggi, dalla sua nascita, la nostra Repubblica non ha ancora vissuto un solo secondo di piena sovranità democratica. Questo privilegio non solo non ci è mai stato concesso. Oggi non è nemmeno più lecito immaginarlo.

Nonostante questa condizione di doppia subalternità, nonostante l'Italia sia un paese continuamente ricattato per il debito pubblico, per la necessità degli aiuti BCE; nonostante il governo Monti (mai gli americani, che di porcate da noi ne hanno fatte eccome, ci hanno imposto un governo tecnico), nonostante i tagli alla spesa, alla sanità, alla scuola; nonostante l'operazione di saccheggio della nostra industria e il depauperamento del tessuto economico operato scientificamente dalla Germania per toglierci di mezzo come concorrete: ecco, nonostante tutto questo oggi dire che il nostro paese è una democrazia a sovranità limitata è una sorta di delitto, un'auto esclusione nell'area marginale dei sovranisti. Chi lo dice è un salviniano, è un fascista o al massimo uno stalinista.

Abbiamo certo vissuto fasi storiche terribili, attraversate da conflitti epocali, dal terrorismo, dalle bombe, dal tintinnio di sciabole, dai falliti golpe, dagli omicidi commissionati alla mafia, dalle commistioni tra poteri occulti, organizzazioni malavitose e politiche. E tuttavia la democrazia italiana non è mai stata così poco libera quanto in questi ultimi anni. Al di là delle ragioni economiche, che certo non possono e non debbono essere trascurate, manca in Italia una sana riflessione sullo stato comatoso della nostra democrazia, sul livello infimo del nostro personale politico, sull'atteggiamento antinazionale di pezzi consistenti degli apparati burocratici e delle istituzioni pubbliche sottomesse agli interessi stranieri.

Mi ricordo, sì, io mi ricordo: mi ricordo che in passato lottare per l'autonomia democratica del paese era un valore. Sembrano essere passati secoli.

*Professore alla Sorbona di Parigi

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