Come il Centro Studi di Confindustria detta la linea al Governo Meloni

di Emiliano gentili e Federico Giusti

Meloni & Co. stanno riscrivendo parte della Manovra di Bilancio. Non lo fanno solo in quanto senzaprivi di argomenti dinanzi alle critiche di chi contesta al Governo di destra una grande incoerenza rispetto alla Riforma Fornero (una misura prima vilipesa, poi applicata con l'aumento dell'età pensionabile e penalizzazioni per chi anticipi l'uscita dal mondo del lavoro), ma perché le critiche alla bozza di testo arrivano soprattutto dalle parti datoriali.

Su Il Sole 24 Ore del 29 ottobre Bonomi non le manda certo a dire: «Alle imprese solo l’8% della manovra». E ancora: «Serve stimolare gli investimenti per le transizioni green e digitale. Senza interventi per la crescita margini stretti per i contratti».

Si va forse prefigurando uno scontro fra due visioni antitetiche? Da una parte la destra attenta alle famiglie italiane e dall'altra le associazioni datoriali e parte del centro sinistra, fautori di investimenti per la crescita economica e ad appannaggio delle imprese?
Una sintesi non convincente dacché Confindustria sta riuscendoprova – e con successo – a costruire un’intesa col Governo proprio indirizzando la manovra nel senso invocato ledalle imprese. Non a caso gli industriali si esaltano per il, al pari dei sindacati rappresentativi, plaudono al taglio del cuneo fiscale – che vorrebbero tuttavia strutturale, in modo da far pagare d’ora in avanti gli aumenti contrattuali alla fiscalità generale – e benedicono gli accordi di secondo livello, ove lo scambio tra incrementi della produttività e pochi soldi in busta paga risulta assai conveniente per i padroni, per non parlare delle deroghe ai contratti nazionali.

Ma davanti a ogni manovra Finanziaria è normale che si scatenino associazioni e lobby economiche e di potere. Accade da sempre e per questo Bonomi e Confindustria usano la consueta bagarre per mirare ad altri obiettivi, innanzitutto per abbattere la tassazione del lavoro a carico delle imprese per fronteggiare l'aumento dei costi energetici.

Quindi, se al momento due terzi del cuneo fiscale lo pagano le imprese, sarebbe impopolare chiedere direttamente una ripartizione equa delle tasse fra azienda e lavoratore. Per questo motivo i confindustriali propongono al Governo di finanziare questa "operazione di equità". In parole povere si lascia intendere, senza dirlo esplicitamente, che non basta ridurre le tasse sul lavoro quando a pagare di più sono le associazioni datoriali.

Le richieste di Confindustria, però, non finiscono qui: si dice esplicitamente che le imprese non possono accogliere richieste di aumenti salariali in linea con l'aumento del costo della vita senza avere indietro una qualche merce di scambio, prima fra tutte l'aumento della produttività.
Il che ci fa comprendere come l'obiettivo reale sia tanto ambizioso quanto esplicito: incassare oggi la riduzione del cuneo fiscale a carico dello Stato per poi, a partire dal prossimo anno, rivedere a favore delle imprese tutto il sistema della tassazione sul lavoro e a sostegno della cosiddetta crescita. Ma anche in questo caso sarebbe sempre lo Stato a dovere finanziare l'intera operazione di riduzione delle tasse a favore delle associazioni datoriali.

Sempre nesulle pagine de Il Sole 24 Ore Bonomi esplicita ulteriormente il punto di vista padronale asserendo che, senza stimoli agli investimenti e ulteriori tagli al cuneo fiscale, per le aziende non potrà esserci ripresa e le associazioni datoriali continueranno ad essere "danneggiate".

Bonomi guarda direttamente alla gestione delle risorse del PNRR: «Tra Pnrr e fondi del settennato europeo ci sono a disposizione più di 400 miliardi in sette anni, vanno messi a terra bene e velocemente per realizzare le infrastrutture e stimolare gli investimenti. Realizzare quell’Industria 5.0 fondamentale per la competitività e per rispondere alla sfida di Usa e Cina».

Le proposte dei padroni prendono spunto dalle ultime analisi del Centro Studi di Confindustria. (L’economia italiana torna alla bassa crescita? – Rapporto di previsione Confindustria, Autunno 2023). Ancora una volta l'aumento della produttività diventa una sorta di mantra, senza che si prendano seriamente in considerazione le ragioni per cui proprio la produttività e il PIL italiano crescano in misura assai minore di altri paesi Ue. E dunque, dopo anni di regali statali (e sindacali) alle imprese, per aggirare la questione della crisi del sistema produttivo italiano ci si limita a contestaredenunciare come nel manifatturiero, in vent’anni, gli stipendi siano cresciuti di un punto e mezzo in più rispetto alla produttività!

Ammesso, ma non concesso, che esista un criterio oggettivo per misurare la produttività, siamo certi che vengano presi in considerazione anche gli accordi di secondo livello ove da anni avviene lo scambio tra premi (detassati) e incremento dei ritmi e dei tempi di lavoro (sovente in deroga ai contratti nazionali)?

«Il divario con i nostri competitor è impressionante», dice ancora Bonomi, ma quali sono state le scelte dei padroni tedeschi, francesi o spagnoli? Siamo certi che la riduzione del costo del lavoro e i processi di delocalizzazione, gli scarsi investimenti tecnologici e in ricerca innovativa (anche per il ridursi dei margini di profitto) non siano fra le principali ragioni della crisi del modello Italiano? La soluzione non può essere quella di chiedere al Governo una manovra ad hoc per finanziare determinati processi di innovazione a carico della fiscalità generale… non si pulisce un pavimento alzando il tappeto e tirandoci la polvere sotto.

È sempre il Presidente di Confindustria, infine, a focalizzare l'attenzione sull’aumento dei tassi di interesse (che pare non avrannosubiranno ulteriori incrementi) da parte della BCE e sul costo del credito. Bonomi invoca i prestiti bancari e auspica un capitalismo finanziario «senza la sponda della garanzia pubblica», auspicandosi forse il ritorno di tempi di solidità economica. Peccato che, per il momento, debba essere proprio l'Intervento statale a salvare i vari Istituti di credito dal fallimento.

A preoccupare Confindustria e il suo Centro Studi, allora, sono la bassa crescita del Pil (per il 2023 +0,7%, nel 2024 +0,5%), i ridotti consumi delle famiglie, ma soprattutto gli scarsi investimenti (che si vorrebbe provare a cavar fuori dal capitale statale). Da qui nasce l'interesse per i fondi PNRR.

Non sembrano invece interessare le percentuali di forza lavoro con contratti precari e part-time, che contribuiscono anche alla riduzione delle ore lavorate,. o la sottoccupazione femminile, diffusa soprattutto nelle aree meridionali. Forse perché, in tal caso, la riflessione dovrebbe riguardare direttamente i limiti del modello capitalistico italiano.

Dunque, da Confindustria arriva la richiesta di rendere strutturale il taglio del cuneo fiscale, di abbassare la tassazione del lavoro, aumentare la produttività, stimolare gli investimenti e costruire e potenziare le infrastrutture logistiche, produttive e di comunicazione. Al contempo l’obiettivo è quello di potenziare la contrattazione di secondo livello e così facendo indebolire il contratto nazionale (stanno forse pensando a nuove gabbie salariali diversificando le retribuzioni su base locale, come timidamente avanzato qualche tempo fa dalla Lega?). Si chiede, in sostanza, di scaricare parte del costo del lavoro sui dipendenti (taglio del cuneo, aumento della produttività) e sullo Stato. Come apprendiamo dagli ultimi aggiornamenti sulla Manovra in discussione, quest’ultimo dovrebbe ammortizzare il costo sociale di tali richieste investendo risorse, ed ecco allora che si parla di «proroga per un anno del taglio del cuneo contributivo» e di «tassazione agevolata al 5% per i premi di produttività» (Il Sole 24 Ore del 30 ottobre, Valentina Melis). Le ultime misure di decontribuzione ipotizzate, infine, sembrano investire stranamente anche i redditi medio-alti (si pensi alla proposta di decontribuzione delle lavoratrici madri con reddito superiore ai 35 mila euro). Un Governo, dunque, vicino ai ceti popolari soltanto nella propaganda.

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