La marcia dei trattori e la lettera di Pasolini a Calvino



di Agata Iacono

Sulla rivolta degli agricoltori e degli allevatori, sulla "marcia dei trattori", che sembra inarrestabile in tutta Europa, si sta parlando tanto. Perlopiù a sproposito.

Proprio quei partiti che hanno approvato il pac, quelli che hanno sostenuto il green deal, si trovano spiazzati. Già, perché non se lo aspettavano.

Stavano tutti (maggioranza e opposizione) belli e tranquilli a recitare il proprio copione per le europee, attenti ad accapigliarsi fintamente su alleanze e falsi distinguo e, all'improvviso, questi "sporchi contadini senza laurea alla bocconi e senza indottrinamento scolastico, senza parole politicamente corrette", vengono a rompere le uova nel panierino work.

Negli apericena di rito si discuteva amabilmente di poveri migranti, di patriarcato, di resilienza e sostenibilità, di "duello a distanza" per accaparrarsi il caso Salis...

E, d'emblée, arrivano loro.

Senza bandiere rosse, senza chiamarsi compagni, senza pugno chiuso e senza neppure cantare bella ciao. "Che roba, contessa.." Come osano chiedere che non ci siano politici e bandiere di partito alle loro manifestazioni?

Osano capire addirittura come funzionano le multinazionali, come l'Europa voglia distruggere la produzione locale sostituendo il prodotto della terra con farina di insetti, OGM, carne sintetica?

Come si permettono questi sporchi rozzi ignoranti a denunciare che la sostenibilità ambientale non si ottiene sostituendo la coltivazione con pale eoliche e pannelli fotovoltaici?

E come hanno fatto a capire che le sanzioni alla Russia e la chiusura della via della seta con la Cina hanno rovinato l'esportazione dei prodotti, già minata dagli accordi onerosi con il Nordafrica, nati per tenere buone le subcolonie magrebine e i paesi schiavi del CFA?

Dagli apericena delle Ztl si eleva un gridolino sommesso di moderato disgusto. "E non sono neppure operai metalmeccanici, almeno su quelli siamo preparati, sono sindacalizzati e civili...

Invece prima i portuali, gli scaricatori di porto, ora addirittura la gleba."

"Non c'è più morale, Contessa..."

Da ieri mi tormentano le parole di uno scritto corsaro, una lettera di Pasolini a Calvino. Sono andata a rileggerla. Si intitola "Quello che io rimpiango". È stata scritta nel 1974 ed è incredibilmente attuale.

Estrapolo alcuni brani.

"Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L’ordine in cui elenco questi mondi riguarda l’importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva. Fino a pochi anni fa questo era il mondo preborghese, il mondo della classe dominata. Era solo per mere ragioni nazionali, o, meglio, statali, che esso faceva parte del territorio dell’Italietta. Al di fuori di questa pura e semplice formalità, tale mondo non coincideva affatto con l’Italia. L’universo contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie – ché erano vere e proprie minoranze, come in Russia nel ’17) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l’avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri fini politici (per un lucano – penso a De Martino – la nazione a lui estranea, è stato prima il Regno Borbonico, poi l’Italia piemontese, poi l’Italia fascista, poi l’Italia attuale: senza soluzione di continuità)."

"È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango".

E quindi:

"Ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva"

E ancora:

"Tu dirai: gli uomini sono sempre stati conformisti (tutti uguali uno all’altro) e ci sono sempre state delle élites. Io ti rispondo: sì, gli uomini sono sempre stati conformisti e il più possibile uguali l’uno all’altro, ma secondo la loro classe sociale. E, all’interno di tale distinzione di classe, secondo le loro particolari e concrete condizioni culturali (regionali). Oggi invece (e qui cade la «mutazione» antropologica) gli uomini sono conformisti e tutti uguali uno all’altro secondo un codice interclassista (studente uguale operaio, operaio del Nord uguale operaio del Sud): almeno potenzialmente, nell’ansiosa volontà di uniformarsi."

Da "Scritti corsari", in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 1999 [Pubblicato originariamente su "Paese Sera" col titolo Lettera aperta a Italo Calvino. Pasolini: quello che rimpiango]

Ecco perché solo gli ultimi, quelli che producono e consumano i beni necessari, (l'età del pane la chiamava Pasolini), vivono una vita necessaria.
Chi produce e consuma il superfluo vive una vita superflua. Caustico, irriverente, immune alla narrazione politicamente e intellettualmente corretta, capace di vedere quello che io stessa in quel periodo ero totalmente impreparata a comprendere e accettare.

Rassegnatevi, compagni degli apericena e convegni di nicchia. La lotta di classe la stanno facendo loro.

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