Alberto Negri - Perché le elezioni in Algeria ci devono interessare


di Alberto Negri - Quotidiano del Sud


Con l’ubriacatura elettorale britannica da Brexit, pochi ieri volgevano lo sguardo all’Algeria, il nostro secondo fornitore di gas, dove si è votato per le presidenziali. Gli anni di piombo che nessuno vuole più ricordare.

Con l’ubriacatura elettorale britannica da Brexit, pochi ieri volgevano lo sguardo all’Algeria, il nostro secondo fornitore di gas, dove si è votato per le presidenziali, tra tensioni, arresti e manifestazioni di protesta. In teoria con questo voto dovrebbe cominciare il dopo-Bouteflika ma siamo nell’incertezza più completa: ad avere in mano il potere sono sempre e soltanto i militari oggi rappresentati dal generale Salah.
Il voto è stato contestato quasi universalmente dall’ondata protesta dell’”Hirak”, il Movimento, che nell’aprile scorso ha portato alla caduta del presidente-autocrate Abdelaziz Bouteflika e oggi chiede a gran voce lo smantellamento di un sistema troppo contiguo a Le Povouir, il Potere, quel grumo corrotto che tiene in piedi l’Algeria dall’indipendenza dalla Francia, ottenuta con una sanguinosa lotta di liberazione: un milione di morti.


Qui da noi se ne parla poco, i nostri politici e governanti non ne sanno nulla, intuiscono a malapena, e solo i più informati, che l’Eni di Mattei sostenne la lotta di liberazione e, pur essendo l’Algeria è uno dei nostri storici fornitori di gas con forti interessi di Eni, Enel, Edison, non se ne curano. Ma a noi sembra sempre marginale tutto quanto accade in Libia, Algeria o Tunisia, salvo poi risvegliarsi davanti ai cambiamenti stupefatti e impreparati, come al solito.


Le presidenziali, delegittimate dal movimento di protesta Hirak e da molti partiti, rappresentano comunque una svolta: un fallimento nell’affluenza, che sicuramente verrà debitamente dopata dai dati ufficiali, può significare un distacco totale del potere dal Paese.


Tra le poste in gioco il gas: 96% dell’export, metà delle entrate statali e la formula 49/51, che finora ha assegnato all’industria nazionale Sonatrach la maggioranza delle joint venture con gli stranieri. Anche questo potrebbe cambiare e ci interessa da vicino visto che ad Algeri siamo anche legati dal cordone ombelicale del TransMed, il gasdotto che attraversando il territorio algerino e tunisino arriva fino in Sicilia. Le nostre maggiori società come Eni hanno da poco firmato importanti contratti di fornitura ma il gas algerino, destinato anche a un consumo interno in forte aumento, sta calando per mancanza di adeguati investimenti in nuovi giacimenti. Ma per attirare gli investimenti esteri ci vuole stabilità e se gli europei esitano saranno altri come i cinesi a prendere il nostro posto.


In cinque candidati in lizza sono stati ampiamente contestati e hanno fatto una campagna quasi esclusivamente televisiva. Tutte le formazioni politiche hanno dichiarato pubblicamente di sostenere l’Hirak e di boicottare queste elezioni. Uniche eccezioni i due partiti del regime, il Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) che sostiene Azzedine Mihoubi, leader del Raggruppamento Nazionale Democratico (Rnd), altro partito di governo. Molto dipenderà anche dal fronte islamista che presenta un candidato alle presidenziali, Abdelkader Bengrina, visto che il principale partito della coalizione, il Movimento per la Pace e Sviluppo (Msp), ha dichiarato che non voterà alcun candidato, senza esprimersi sul boicottaggio.


Eppure questa è anche l’Algeria sopravvissuta agli anni di piombo quando nello scontro feroce tra forze di sicurezza e i gruppi islamisti sono morti migliaia di algerini: almeno 150-180mila le vittime, oltre 50mila i desaparecidos. L’Algeria di quegli anni la ricordo molto bene, qui quasi nessuno la menziona più, ma fu questo il primo grande fronte del radicalismo islamico nel Maghreb, dove dall’Afghanistan erano tornati i mujaheddin reduci dalla guerra contro l’Urss per dare vita alla guerriglia.


Algeri si svegliava all’alba già in preda alla paura e per un lungo e buio decennio si rifugiava nelle case ancora prima del coprifuoco: alle cinque del pomeriggio, estate o inverno, non circolava già più nessuno nelle strade. Non si sapeva neppure chi uccideva chi: era in corso una lunga “guerra sporca” dove i gruppi estremisti terrorizzavano la popolazione con le decapitazioni e a loro volta i corpi speciali del regime militare, i ninja, terrorizzavano, prima ancora degli islamisti, gli stessi algerini. Negli obitori visitavo cadaveri fatti a pezzi, tranciati, tenuti insieme dal fil di ferro per permettere i funerali e restituirli alla famiglie, se mai le avessero trovate.


Era l’Algeria dove nel 1991 il Fis, il Fonte islamico di Salvezza, aveva vinto il primo turno delle elezioni ma era stato quasi subito esautorato e privato della vittoria da un colpo di stato dei generali. La notte algerina cominciò così: una tragedia a porte chiuse dove i giornalisti e gli osservatori esterni raramente erano ammessi. Ancora oggi ottenere un visto giornalistico per Algeri è un’impresa lunga e complicata.
Ricordo ancora per settimane il brivido gelido della solitudine, di giornate passate a contare i morti, i colleghi algerini uccisi, i cantanti, gli attori, gli scrittori, mitragliati, accoltellati sgozzati. In poco tempo l’Algeria fu svuotata dai suoi intellettuali per diventare una sorta di immenso recinto a cielo aperto dove, quando calava la notte, si uccideva, si sparava e saltavano le autobombe. Con l’oscurità non giungeva mai un sonno profondo ma una sorta di veglia continua, interrotta da spari o rumori sospetti. Non c’era un fronte di guerra ma un senso di pericolo continuo, costante, pervasivo e angosciante. Ne ho viste tante in oltre 30 anni da inviato di guerra: ma quell’Algeria non riesco mai a dimenticarla. Quella paura ogni tanto riaffiora come una sorta di inquietudine che non ti lascia mai.

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