La "rivoluzione green" del Pentagono: tra equivoci e prese in giro dirette

di Marinella Correggia

Lloyd Austin, segretario della Difesa nella nuova amministrazione Usa, ha dichiarato il pieno sostegno all’indicazione del presidente Joseph Biden di considerare la questione climatica un “elemento essenziale della politica estera e della sicurezza nazionale” e di “valutare gli impatti dei cambiamenti climatici sulle strategie, sulle operazioni e sull’infrastruttura di sicurezza nella prossima Strategia di difesa nazionale”. E “cambiando il modo in cui affrontiamo la nostra impronta carbonica, il Dipartimento della Difesa può essere anche una piattaforma per lo sviluppo di tecnologie amiche del clima”.

A parte la legittima ironia – potrà mai un cacciabombardiere funzionare a energia solare? – c’è da chiedersi anche se le suaccennate considerazioni di Austin siano una novità, nel panorama rappresentato dal Pentagono, tentacoli all’estero compresi.

La risposta è no.

Non è la prima volta che il complesso della “difesa” Usa si occupa di caos climatico: già nel 2010 lo aveva riconosciuto come “una possibile minaccia ai luoghi dove l’apparato militare opera e ai suoi ruoli e missioni”. Concetto ribadito in un rapporto e dichiarazioni del 2014 (https://unfccc.int/news/climate-change-threatens-national-security-says-pentagon e https://www.defense.gov/Newsroom/Speeches/Speech/Article/605617/): da un lato si spiegavano le (costose) attività intraprese, in particolare nelle basi militari più esposte, per aumentarne la resilienza (contro l’innalzamento del livello dei mari, la frequenza dei disastri naturali ecc); dall’altro il cambiamento climatico era visto come un “moltiplicatore di minacce”, comprese le malattie infettive e il terrorismo.

In realtà, il Pentagono ben più che una vittima è stato uno dei carnefici del clima visto che, con il suo apparato e le sue guerre, è il principale consumatore di combustibili fossili nel mondo oltre che grande inquinatore di suolo, acqua e aria.

Il raggiungimento dell’obiettivo primario di zero emissioni è impossibile senza includere il complesso militar-industriale, le sue basi territoriali, i suoi eserciti e il suo risultato più tragico: le guerre di aggressione, gli interventi umanitari responsabili di devastazioni ambientali, vittime umane e spostamenti di popolazione. Pensiamo poi alla produzione di armi con il suo zaino ecologico e climatico, e all’impatto delle distruzioni massicce di infrastrutture, case, servizi, tutto da ricostruire.

Questo circolo vizioso inizia tanto tempo fa. Nel 1997, nelle battute finali dei negoziati sul clima per arrivare al Protocollo di Kyoto, la Camera dei rappresentanti Usa passa un emendamento che esenta le emissioni del settore militare dagli obiettivi vincolanti di riduzione.

Una situazione paradossale che è stata ricordata, agli inizi di gennaio 2021, dalla petizione “Basta con l’esclusione dell’inquinamento di origine militare dagli accordi sul clima”. La petizione specifica: “Tutte le emissioni devono essere comprese, per raggiungere gli impegni internazionali vincolanti necessari a proteggere il clima terrestre”.

L’appello è indirizzato a John Kerry, fresco di nomina – da parte di Biden – come inviato Usa per il clima. Nel suo primo discorso ha già dichiarato che occorre andare oltre gli accordi di Parigi.

E tuttavia... fra clima e complesso militar-industriale, che cosa sceglierà Kerry, che - per esempio - nel 2002 votò per autorizzare Bush all’uso della forza contro l’Iraq, e che da segretario di Stato sotto la seconda presidenza Obama non cercò certo la pace in Siria né in Yemen?

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