Burqa coi talebani, droga e bordelli con gli americani

di Maria Morigi

Le donne che non sono né troppo giovani né troppo anziane devono velarsi il viso di fronte a un uomo che non è un membro della loro famiglia” il leader dei talebani Hibatullah Akhundzada ha appena firmato il decreto reso pubblico dal governo talebano alla stampa, a Kabul. Si è aperta quindi una gara tra le principali fonti di stampa a fare copia-incolla della frase: “Il leader supremo dei talebani ha ordinato con un decreto alle donne di indossare il burqa in pubblico, riportando indietro la storia di oltre 20 anni”.

Osservo a proposito che, nel “copiare” un testo, si eludono sia la sostanza dell’informazione, sia le motivazioni dei fatti, o semplicemente si dimostra ignoranza, in questo caso di tradizioni e costumi praticati nei Paesi islamici. So anche di essere invisa alle femministe integrali avendo parlato malissimo della signora Goracci, emula dell’Oriana, quando investì in modo arrogante un giovane talebano con la frase “Perché non mi guardi negli occhi!?”. Il malcapitato rispose con timida fermezza: “Non mi è permesso guardare le donne in faccia”. Sull’episodio, risalente allo scorso agosto, sono fiorite illazioni: talebani maleducati, talebani arroganti, talebani ignoranti, talebani che odiano le donne… articoli di scribacchini e opinionisti hanno invaso i media e provocato un fastidioso acido reflusso di coscienza occidentale con l’esaltazione dell’eroica Goracci che sfidava il terrore talebano.

In realtà politiche e misure repressive nei confronti delle donne non sono da imputare ai soli talebani, così come ci vuol far credere la propaganda occidentale, ma proprio all’etnia di minoranza dei tagiki formata da ex-mujaheddin e nemica prima dei sovietici e poi dei talebani. Burhanuddin Rabbani di etnia tagika fu presidente della Repubblica Islamica di Afghanistan per il periodo 1992-96, prima di essere cacciato dai talebani. “L’Ufficio delle Virtù” fu istituito proprio sotto la presidenza Rabbani, e quelle severe norme di comportamento sociale, che coi talebani diventarono rigida prassi, erano già ben presenti nella pratica di governo, nelle città e nei villaggi.

I Talebani di etnia pashtun, preso il potere nel 1996, cercarono di sradicare la criminalità, mettere al bando il consumo di droga, alcool e prostituzione. Il “Ministero per la preservazione della virtù e la soppressione del vizio” aveva il compito di regolare la vita quotidiana, vietando tv, cinema, musica e obbligando le donne ad indossare il burqa. Una inflessibile polizia religiosa applicava misure drastiche verso ladri, omosessuali e ‘disobbedienti’. Cioè niente di nuovo rispetto al governo Rabbani e all’Alleanza del Nord, tranne che per l’enfasi con cui i misfatti e la ferocia dei Talebani furono dipinti presso il pubblico occidentale.

Con l’intervento NATO di Ottobre 2001 ci hanno raccontato che in Afghanistan era arrivata la democrazia, e che la Costituzione del 2004 garantiva alle donne afgane una serie di diritti, vietando “ogni forma di discriminazione e di privilegio tra i cittadini dell’Afghanistan”. Ebbene furono solo teorie e propositi proclamati, ma assolutamente niente di concreto; l’articolo 84 (stabiliva che nel Meshrano Jirga il 50 % dei membri nominati dal Presidente dovevano essere donne) faceva ridere gli afghani e nessuna donna, sposata o no, avrebbe mai pensato di farsi nominare nella quota prevista dalla democrazia importata senza incorrere in punizioni corporali da parte del marito o dei parenti.

Segnalo infine una legge sul diritto di famiglia delle comunità sciite, promossa anch’essa da Tagiki e firmata nel marzo del 2009 dal presidente Karzai. Tale legge consentiva ai mariti di stuprare le mogli (uno stupro legalizzato) e proibiva alle donne sposate di uscire di casa senza il permesso del coniuge. In seguito il parlamento approvò una versione ‘mitigata’ della legge, in base alla quale le donne perdono il diritto al mantenimento se rifiutano di avere rapporti sessuali con il marito. È rimasta invece inalterata (e vigente) la norma per cui le donne sposate non possono lasciare il tetto coniugale senza permesso del coniuge.

A proposito del burqa, bisogna sapere che esso è da far risalire a ben prima di 20 anni fa, precisamente a quando nel Raj britannico (parliamo del XIX secolo in India ed emirato dell’ Afghanistan in lotta contro gli inglesi) le Scuole religiose dei Talebani Deobandi e Barelvi - oggi prestigiose Università con migliaia di studenti coranici - volevano sottrarre le donne agli appetiti e alla curiosità degli invasori occidentali.

La pratica del burqa come copertura ‘securitaria’ totale è diventata in seguito un costume che non dispiace alle donne, come invece sostengono le titolari femministe dei diritti umani, ma le fa sentire più sicure e meno “oggetti sessuali”. I problemi veri e sacrosanti delle donne afghane, a mio modesto avviso, sono altri: la possibilità di andare a scuola quando le scuole non ci sono, i matrimoni forzati a causa della miseria, l’assistenza sanitaria e soprattutto le condizioni di violenza diffusa in ambito coniugale.

Ora che gli occupanti se ne sono andati, non sembra manchi la volontà politica per cominciare ad affrontare questi ed altri problemi della condizione femminile, ma ci vorrebbero organizzazione, competenze ed esperienza per intervenire su un quadro sociale di diritto tribale e consuetudinario, oltre al denaro. Peccato che il patrimonio di beni della Banca centrale afgana, ammontante a miliardi di dollari, sia congelato nelle banche USA e gli afghani stiano vivendo la più grave crisi alimentare della loro storia.

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