di Diego Angelo Bertozzi
Non solo un gigante della filosofia, ma anche un acuto osservatore della realtà politica nazionale e internazionale: Emanuele Severino (1929-2020) è stato in grado di declinare il suo originale, e non certo semplice, pensiero filosofico in un linguaggio giornalistico chiaro, coerente e comprensibile. Il libro di Paolo Barbieri Emanuele Severino giornalista (Morcelliana, 2025) riprende e ripercorre con puntualità e rigore, tenendo insieme apparato filosofico e analisi della realtà politica, sociale e culturale, l'imponente e originale attività giornalistica del filosofo bresciano. Forse oggi un impegno poco conosciuto, o forse tenuto debitamente ai margini perché certamente non sostenibile e "digeribile" in un contesto di analisi politica e culturale alimentata da sterili contrapposizioni politiche e ideologiche ormai sterili, come quella, giusto per fare un esempio, tra occidente democratico e oriente autoritario; tuttavia ci troviamo di fronte - anche se ancorate in gran parte al periodo della guerra fredda, con il duumvirato Usa-Urss, e al crollo del socialismo reale - a un corpus critico che merita l'emersione nel pubblico dibattita dal sottosuolo nel quale è relegato quasi fosse uno specchio in grado di rivelare, senza nascondimenti, la menzogna delle nostre verità e di rivelare la trappola del nichilismo che inesorabilmente ci avvinghia.
Fin dal suo primo articolo sul quotidiano Bresciaoggi (1 giugno 1974), dedicato alle motivazioni interne e internazionali della strage di Piazza della Loggia a Brescia, Severino ha sempre guardato alle tragedie, e in generale all'attualità, del nostro Paese attraverso il filtro dei rapporti internazionali, caratterizzati in gran parte dal "duumvirato Stati Uniti-Unione Sovietica, vale a dire dal duopolio della potenza tecnica di distruzione planetaria, e successivamente dal crollo dell'Urss e dell'affacciarsi del terrorismo di matrice islamica. Barbieri riesce bene nel proposito di tenere insieme e rendere comprensibile la trama di un pensiero filosofico complesso, tutt'altro che agevole da affrontare, ma perfettamente in grado di analizzare il presente traendo fonte da quello greco (a partire da Parmenide) e che intravede nel dominio planetario dell'Apparato tecnico-scientifico l'ineludibile sbocco di una storia millenaria della riflessione occidentale; di un sottosuolo filosofico del quale non abbiamo piena coscienza: quel nichilismo ("estrema follia") che assimila ogni ente, ogni cosa, al nulla, rendendoli disponibili alla distruzione e al totale annientamento. Qui trova radice la guerra quale "levatrice e becchino delle civiltà" perché le cose come intese durante larghissima parte della storia dell'occidente risultano disponibili "all'essere e al niente" e proprio per questa situazione di oscillazione ontologica tra i due poli (essere e nulla) di ogni cosa "sorge la volontà di dominarla e di produrla e di distruggerla". Così intese, le cose sono oggetto della volontà di potenza e rendono possibile ogni azione e ogni forma estrema di dominio.
Soffermiamoci - visti anche la natura e gli interessi della nostra testata - sul sesto capitolo del libro di Barbieri perché ha un'importanza cruciale nel delineare le riflessioni del filosofo bresciano ed esprimerne la piena attualità di fronte allo sviluppo sempre più accelerato dell'Apparato tecnico-scientifico. Ci immergiamo in quel sottofondo filosofico che ha reso possibile la "morte di Dio" annunciata da Nietzsche, vale a dire di ogni tradizione, religione, ideologia, valore (anche estetico) che hanno preteso - e in parte ancora pretendono - di porre dei limiti, una cornice prestabilita (come le possenti colonne di un tempio) al divenire delle cose, per trovare riparo dall'angoscia della morte e dell'annientamento. La fede/follia nel divenire altro delle cose è ciò su cui si regge la prassi della tecnica e del suo continuo sviluppo: utilizzata come mezzo dalle varie forze/forme della tradizione che si pretendono come immutabili (l'autore esamina nello specifico capitalismo, marxismo e cristianesimo) e che sono fra di loro in competizione per prevalere, la tecnica, una volta ingaggiata nella battaglia non può tollerare alcun limite, morale o politico che sia, pena il suo deperimento e conseguente sconfitta dell'immutabile che serve. Per evitare questo, il dio, l'ordine capitalistico e la costruzione della società socialista decadono perché, per prevalere, non possono porre alcun limite allo sviluppo della tecnica tanto da retrocedere via via alla condizione di mezzi di questa. L'esempio riportato da Severino è quello del socialismo sovietico, crollato proprio perché impalcatura politica e valoriale troppo pesante. Il rapporto tra servo e padrone di hegeliana memoria si ribalta lungo un tragitto già tracciato, scolpito nelle stanze antiche in cui dimora la tradizione filosofica occidentale. La guerra di oggi - pensiamo a quella in Ucraina tra Russia e Nato - diventa così, pur nella sua quotidiana drammaticità, un fronte secondario (una forma in via di estinzione) del conflitto generale ingaggiato dall'apparato tecnico scientifico contro ogni forma di tradizione; lo sviluppo di nuove armi, l'uso dell'intelligenza artificiale ne alimentano forza e pretese.
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