Nel suo ultimo articolo per il Manifesto il professore di economia all'Università del Salento Emiliano Brancaccio affronta la vicenda degli asset russi e le discussioni tra gli Stati membri dell'Unione Europea sulle prossime mosse.
Gli asset, spiega il professore, sono stati accumulati per la tendenza della banca centrale russa a "sterilizzare" i proventi dalle esportazioni di materie prime e tenere sotto controllo il tasso di cambio. "Di norma, che questi asset siano depositati a Bruxelles o a Fort Knox o a Pechino, nessuno osa dibattere sulla totale libertà del proprietario di rivendicare la titolarità su di essi e di utilizzarli come crede", scrive Brancaccio, sottolineando come questa normalità venga messa in discussione nelle fasi di "violenza imperialista" che rimette in discussione tutto, perfino "il più sacro dei diritti capitalistici: la proprietà".
Dopo aver ricordato alcuni esempi storici di questi “congelamenti” - Siria, Iran e Afghanistan in particolare come arma finanziaria - usati per mettere in ginocchio paesi in guerra. "Nel caso della Russia, tuttavia, le cose non andate come l’Occidente sperava. Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di Putin, la Cina ha incrementato di oltre il 65 percento l’interscambio con l’economia russa. E un aumento di proporzioni simili è avvenuto, guarda caso, con l’intera area Brics. Un risultato di questa maggiore integrazione è che la Russia non ha subìto stravolgimenti del saldo di bilancia commerciale".
Come spiegare l'“escalation finanziaria”? Non basta più congelare, si passa all’esproprio. A ben vedere, prosegue Brancaccio, si tratta di una posizione opposta a quella degli Stati Uniti, che suggeriscono "di utilizzare gli asset russi non come donazioni riparatrici ma al contrario come investimenti remunerativi da attuare in Ucraina".
È questa una partita chiave, conclude Brancaccio che ricorda il monito della BCE che se si mette in discussione il diritto di proprietà denominate in euro, si mette in crisi la fiducia mondiale intorno alla moneta unica. "In fin dei conti, è un «whatever it takes» adattato alla nuova epoca imperiale: fare tutto il necessario per salvare l’euro, al limite anche lasciare l’Ucraina al suo destino".
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