Geopolitica del narcotraffico: quando Washington perdona i suoi alleati scomodi

29 Novembre 2025 17:11 Fabrizio Verde


di Fabrizio Verde

La presunta guerra al narcotraffico dell’amministrazione Trump si rivela per quello che è sempre stata: una colossale menzogna, un pretesto per manovre geopolitiche che nulla hanno a che fare con la sicurezza, ma solo con il recupero dell’egemonia in una regione che Washington considera il proprio ‘patio trasero’ e nel caso del Venezuela appropriarsi delle ingenti risorse naturali del paese. L’ultima, scandalosa prova arriva dalla decisione del presidente statunitense di concedere l’indulto all’ex presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernández, condannato proprio negli Stati Uniti a 45 anni di carcere per traffico di cocaina e armi.

Un perdono totale e completo, annunciato su Truth Social con la sconcertante giustificazione che Hernández è stato trattato “in modo molto severo e molto ingiusto”. La stessa mano che ha firmato un dispiegamento militare senza precedenti nei Caraibi, giustificato con la necessità di combattere i cartelli della droga, oggi solleva dalle sue colpe un uomo accusato di aver agito per far entrare oltre 500 tonnellate di cocaina negli Stati Uniti, ricevendo finanziamenti dal narcos messicano ‘Chapo’ Guzmán.

L’atto di clemenza non è un evento isolato, ma il tassello di una strategia perfettamente orchestrata. Trump lo ha reso esplicito, abbinando l’annuncio del perdono a un endorsement per il candidato conservatore Nasry ‘Tito’ Asfura, esponente del Partito Nazionale, la stessa formazione di Hernández, i cui legami con il narcotraffico sono oggetto di indagine. Un messaggio chiaro e di palese ingerenza: “Votate per Tito Asfura per presidente, e congratulazioni a Juan Orlando Hernández per il suo prossimo indulto”. Una promessa di “molto supporto” per l’Honduras condizionata alla vittoria del candidato gradito a Washington.

È la dimostrazione lampante che la retorica della lotta al narcotraffico viene brandita in modo selettivo e strumentale. Mentre si additano come nemici i governi di sinistra di Venezuela e Colombia, si stringono alleanze con leader di estrema destra i cui legami con il crimine organizzato sono ben noti anche negli Stati Uniti. Il vero obiettivo non è evidentemente interrompere il flusso di droga, ma influenzare i cambi di governo in America Latina, sostenere alleati politici convenienti e ostacolare l’ascesa di forze progressiste, socialiste e sovrane.

Proprio come sta accadendo in Honduras, dove per le imminenti elezioni il partito Libre (sinistra) della presidente uscente Xiomara Castro è in testa nei sondaggi con la candidata Rixi Moncada. Una prospettiva inaccettabile per Washington, che teme la conferma di un progetto di “rifondazione” e sviluppo nazionale avviato da Castro sulla scia di Zelaya, la quale ha ricordato con forza che la sovranità dell'Honduras “non si vende e non si negozia”.

L’ingerenza di Trump nel processo elettorale è quindi l’altra faccia della stessa medaglia. Attaccando l’ex alleato Salvador Nasralla, accusandolo di fingere di essere anticomunista per “dividere il voto di Asfura”, e minacciando di tagliare gli aiuti in caso di una vittoria “sbagliata”, l'inquilino della Casa Bianca sta palesemente cercando di alterare il risultato delle urne a favore dei propri interessi.

Il perdono a Hernández non è dunque un gesto di giustizia, ma un cinico segnale politico. È la prova definitiva che la crociata antidroga di Trump è finzione pura, un paravento per operazioni di destabilizzazione e controllo. Di fronte a questa palese manipolazione, le parole della presidente Castro risuonano come un monito: “Siamo resistenza”. Una resistenza che, il prossimo 30 novembre, dovrà proteggere il proprio voto e la propria sovranità dalle ingerenze di chi, mentre finge di combattere i narcos, ne assolve i complici al potere.

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