di Michele Blanco
Il Filosofo Immanuel Kant, 1724-1804, idealista borghese, nato, vissuto e morto a Königsberg (oggi Kaliningrad), è stato il primo a proporre una definizione dell’illuminismo racchiusa nel motto “sapere aude!”, abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza. Ancora più profonda la sua teoria della libertà. Essere liberi, in senso kantiano, significa essere in grado di prendere una distanza critica dalle proprie passioni e inclinazioni, e chiedersi se queste contribuiscono al pensiero “illuminato”: all’allontanamento, come dice Kant, dall’“immaturità autoimposta degli esseri umani”.
L’illuminismo si basa su tre massime fondamentali: pensare con la propria testa, pensare mettendosi nei panni di tutti gli altri e pensare sempre in modo coerenza. Queste massime, a suo avviso, potrebbero essere applicate attraverso “l’uso pubblico della ragione”, un modus operandi fondamentalmente diverso dall’uso “privato” che ne fanno le persone nelle loro professioni.
L’applicazione di queste massime richiede sempre un impegno pluralistico, imparziale e critico. È difficile capire le aspirazioni di Kant in un’epoca come la nostra, in cui lo spirito pubblico è costantemente minacciato dallo scontro tra interessi privati. Il nostro modo di comunicare sembra più ampio e più inclusivo rispetto a quello del Settecento, ma è anche meno profondo, più arrogante e fondamentalmente meno critico.
Il dissenso si manifesta attraverso clamorosi atti di autoespressione individuale, preferibilmente registrati su uno smartphone, più che attraverso un impegno critico collettivo. Come noi, Kant visse in un’epoca di profonda crisi, segnata da grandi progressi della scienza e della tecnologia, ma anche da un crollo di valori tradizionali. Ma egli riuscì a concepire per l’uso pubblico della ragione il ruolo di capacità comunicativa universale che cerca di orientarsi in una via di compromesso tra scetticismo e dogmatismo, tra il non credere in nulla e il seguire ciecamente le tendenze predominanti. Questa concezione della ragione sembra più difficile da far rivivere nelle nostre società, democratiche, strangolate come sono tra interessi privati distruttivi e personalizzazione dell’impegno politico.
Kant è l’autore di uno dei più famosi saggi contro la guerra della storia della filosofia, Per la pace perpetua, pubblicato nel 1795.
Mentre i conflitti distruttivi minacciano di espandersi, dalla guerra tra Russia e Ucraina all’Europa, e dallo scontro tra Israele e Palestina al resto del Medio Oriente, la rilettura di Kant risulta profondamente attuale e sconvolgente, ma dovrebbe essere anche istruttiva. Il titolo stesso del saggio s’ispira all’incisione satirica sulla tavola di un locandiere olandese dove “pace perpetua” si riferiva alla calma del cimitero. Kant non poteva sapere, naturalmente, delle minacce nucleari. Però il suo avvertimento riguardo a “una guerra di sterminio in cui l’annientamento simultaneo di entrambe le parti permetterebbe alla pace perpetua di realizzarsi solo nel vasto cimitero della razza umana” suona incredibilmente attuale. Il saggio stesso prende la forma di un trattato di pace universale ideale, contenente una serie di articoli per arrivare non solo a una cessazione delle ostilità, ma alla fine della guerra, dell’idea stessa di guerra, una volta per tutte. Kant critica la facilità con cui gli stati contraggono debiti allo scopo di finanziare le guerre (sembra riferirsi alla situazione italiana attuale) . Il debito, egli sostiene, è legittimo per realizzare progetti pacifici, ma quando si tratta di conflitti internazionali, il denaro ha un “potere pericoloso” perché, “combinato con l’inclinazione dei politici alla guerra, la rende più facile”. Le parti più note del saggio di Kant sulla pace perpetua sono quelle in cui sostiene che i diritti delle nazioni devono fondarsi su un “federalismo tra stati liberi”.
Il filosofo tedesco insisteva sul fatto che le classiche categorie del diritto privato, pubblico e internazionale dovessero essere completate da una nuova più importante categoria, che chiamò “diritto cosmopolita”. Basato sull’originario possesso collettivo della terra tra gli esseri umani, il cosmopolitismo di Kant implica il riconoscimento di un diritto ad andare ovunque (anche emigrare o solo viaggiare per ampliare la conoscenza), senza essere trattati con ostilità. Specifica inoltre che, poiché l’interazione globale è ormai arrivata al punto che “una violazione del diritto in un luogo della terra ha riflessi dappertutto”, il concetto di cosmopolitismo non è una questione di etica ma di politica. Poiché diritto privato, pubblico, internazionale e cosmopolita sono interdipendenti, quando uno di essi viene messo in discussione, crollano anche gli altri.
Kant era un pacifista, ma non era per nulla un ingenuo. In un saggio del 1943 intitolato The future of pacifism, il filosofo britannico Bertrand Russell distingueva tra la versione assoluta e quella relativa della sua posizione. Da un lato, la prima, diceva Russell, si basa sulla tesi che “in qualsiasi circostanza, è sbagliato togliere la vita a un essere umano”; la seconda, d’altro canto, era legata all’idea che “i mali della guerra sono quasi sempre maggiori di quanto appaiano alle popolazioni esaltate nel momento in cui scoppia un conflitto”; e che mentre alcune guerre valgono la pena di essere combattute, in casi come quello della prima guerra mondiale i “mali che ne erano derivati” erano stati maggiori di quelli causati dalle concessioni necessarie per evitarla.
Il sistema di Kant resiste a calcoli di questo tipo: il suo pacifismo riguarda più i princìpi che le conseguenze. Tuttavia, sia per Kant sia per Russell, il pacifismo non equivale assolutamente alla posizione di chi “porge l’altra guancia” assunta dai primi padri della chiesa, in reazione alla quale nacque la tradizione della “guerra giusta”.
Per i sostenitori della guerra giusta, porgere l’altra guancia aveva senso solo in caso di violenza contro un singolo individuo, non di un attacco contro un intero gruppo di persone innocenti. Come diceva Agostino, uno dei suoi primi paladini, “è l’ingiustizia della parte avversa che impone all’uomo saggio il dovere di condurre una guerra giusta”. Questa posizione era tanto prominente tra i giuristi del settecento quanto sembra esserlo tra i politici liberali di oggi. In risposta a questa tendenza, il tipo di pacifismo proposto da Kant (e che ispirò Russell) rientrava in un discorso politico. I pacifisti sono pienamente consapevoli di quanto e come una posizione pacifista rischi d’incoraggiare nuove aggressioni. Quello che cercano di evidenziare è il pericolo di un’escalation e la rarità storica delle guerre che si concludono con la vittoria totale di una sola parte. Il saggio di Kant sulla pace perpetua è spesso citato come fonte d’ispirazione per l’Unione europea: un progetto nato dalle ceneri della Seconda guerra mondiale che ha visto i nemici mortali di una volta unirsi in un impegno condiviso per creare istituzioni pacifiche.
Nonostante tutti i suoi limiti, è stato cruciale, per oltre settant’anni, per allontanare l’Europa occidentale dalla politica del nazionalismo fratricida. Negli ultimi tempi l’Europa è diventata un luogo in cui lo scontro tra il bene e il male è regolarmente, ma impropriamente, invocato per giustificare atti d’irresponsabile brutalità, e dove i “tamburi di guerra” si fanno sentire sempre più forte.
Mentre i governi di tutto il mondo sono ancora una volta impegnati nella corsa agli armamenti, le quote di mercato dell’industria militare salgono alle stelle. Allarmismi irrazionali emergono in continuazione come chi cerca nemici dentro i confini europei e agita lo spettro dell’attentato ai valori tradizionali costituito dai migranti, chiedendo apertamente la deportazione extraterritoriale dei richiedenti asilo. Altri fanno i conti con la possibilità di avere nemici esterni, e ci invitano a “prepararci mentalmente” all’idea che viviamo in un’“epoca prebellica”, come ha recentemente affermato il primo ministro polacco Donald Tusk.
Mentre chi propone giustamente il compromesso e la necessità di tenere conto delle sfumature è esposto, se va bene, al ridicolo e agli insulti su internet, se va male alla censura.
Nulla è più lontano dallo spirito di Kant del modo attuale assolutamente dogmatico e irrazionale in cui ci viene chiesto di accettare la guerra e, contestualmente l’uso della forza, in tutte le sue forme: politica, sociale, culturale. Ci stanno convincendo con una continua e martellante propaganda che il bene e il male siano inevitabili, che la guerra, nelle sue varianti, nel mondo delle idee, in politica, ai nostri confini, al fronte, sia l’unica via da percorrere.
Kant riteneva invece che le controversie in cui dovremmo scendere sono solo quelle della ragione, insiste nel dire, nella Pace perpetua, anche tra i peggiori eccessi bisogna mantenere fiducia nell’umanità del nemico. Quello che Kant ha ancora, indiscutibilmente, da insegnarci a trecento anni dalla sua nascita, è che la ricerca della vittoria totale rischia di portare alla totale estinzione, la corsa alle armi porterà solo al disastro.
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