La "cronicizzazione" del conflitto russo-ucraino e il futuro della Nato  

di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

Nei giorni scorsi, il «Financial Times» ha affermato, basandosi su quanto rivelato da quattro fonti interne al governo ucraino, che il presidente Volodymyr Zelens’kyj era sul punto di sollevare dall’incarico il Capo di Stato Maggiore Valerij Zalužny.

Nello specifico, Zelens’kyj avrebbe proposto al generale il ruolo di suo consigliere militare, mettendo tuttavia in chiaro che, a prescindere dalla sua risposta, la posizione al vertice delle forze armate ucraine sarebbe stata affidata a qualcun altro. Zalužny avrebbe comunque rifiutato. Le confidenze raccolte dall’autorevole quotidiano britannico hanno inoltre precisato che la decisione non avrebbe necessariamente trovato immediata applicazione, anche a causa dei “tempi tecnici” necessari a individuare un sostituto all’altezza. I due candidati più accreditati rientrerebbero entrambi nella cerchia ristretta di Zelens’kyj, vale a dire Oleksandr Syrs’kyj, comandante delle forze di terra ucraine, e Kyrylo Budanov, a capo della direzione dell’intelligence militare.

La notizia dell’aut-aut sottoposto dal presidente ucraino al Capo di Stato Maggiore fa seguito a mesi di speculazioni in merito al deterioramento dei rapporti intercorrenti tra i due, alimentate dalla reciproca ostilità che è andata montando quantomeno dal fallimento della controffensiva ucraina sferrata nella tarda primavera del 2023. Un rovescio riconosciuto urbi et orbi da Zalužny, attraverso un articolo pubblicato sull’«Economist» arricchito da un’intervista rilasciata sempre alla nota rivista britannica in cui si evidenziava l’inevitabilità della sconfitta dell’Ucraina in assenza di un ragguardevolissimo sforzo aggiuntivo da parte della Nato.

Le sue esternazioni suscitarono l’accesa irritazione di Zelens’kyj, che le qualificò come funzionali alla propaganda russa e che, stando ad alcune indiscrezioni, avrebbero indotto già da allora il Ministero della Difesa a predisporre la rimozione del generale dall’incarico di comandante in capo delle forze armate. Le autorità di Kiev smentirono seccamente, mentre il maggiore Gennadij ?astiakov, fidato assistente di Zalužny, cadeva vittima di uno strano incidente e Tatyana Ostaš?enko, comandante delle forze mediche ed altro membro della cerchia ristretta di Zalužny, veniva rimossa dall’incarico conformemente alle previsioni formulate qualche giorno prima da Stephen Bryen. Vale a dire un ex alto funzionario sotto l’amministrazione Reagan ed esperto di cyber-terrorismo e tecnologie militari di caratura mondiale secondo cui questi eventi rientravano in un complessivo regolamento di conti ai vertici dello Stato ucraino, segnato dalla contrapposizione tra la fazione guidata dal presidente e la compagine “realista” riconducibile al Capo di Stato Maggiore. Un redde rationem che per Bryen sarebbe potuto culminare con l’allontanamento di altri due ufficiali molto vicini a Zalužny: il comandante delle forze congiunte Serhii Naev e il comandante del gruppo operativo-strategico Oleksandr Tarnavsky. Più recentemente, Zelens’kyj ha tentato di scaricare le responsabilità relative all’approvazione del contestatissimo e alquanto impopolare disegno di legge che inasprisce ulteriormente i criteri della coscrizione militare proprio sul Capo di Stato Maggiore.

Allo stato attuale, ha osservato Dmitrij Natalukha, presidente della commissione per lo sviluppo economico della Verkhovna Rada e membro di spicco del partito Servitore del Popolo, quasi 3,5 milioni di ucraini che si trovano all’interno del Paese si nascondono alle autorità per evitare l’arruolamento; persone «di cui lo Stato conosce soltanto il numero di identificazione. Non sono all’estero, non fanno parte delle forze armate ucraine, non sono disabili, non studiano e non lavorano». Qualora il disegno di legge, che si prefigge l’obiettivo di mobilitare ulteriori 500.000 ucraini dovesse entrare in vigore, «una parte ancor più significativa della popolazione taglierà qualsiasi legame con lo Stato pur di non essere identificata, trovata e costretta alla leva». Le ripercussioni negative sullo sforzo bellico, sulla logistica e sull’economia interna sono agevolmente immaginabili.

Trascinato pubblicamente sul banco degli imputati dal presidente, Zalužny ha a sua volta convocato una conferenza stampa per respingere le accuse, sottolineando che il provvedimento andava ricondotto alla volontà politica di proseguire la guerra, riconducibile proprio a Zelens’kyj. Di fronte ai giornalisti, Zalužny ha quindi chiarito la propria posizione, e spiegato che l’unica soluzione alternativa al prolungamento a oltranza della guerra promosso dal presidente verte sul congelamento del conflitto, da perseguire parallelamente all’apertura di un negoziato con la Russia.

Un’iniziativa di cui, stando al contenuto di un’inchiesta realizzata all’inizio del dicembre 2023 da Seymour Hersh, il generale si sarebbe già fatto carico. Basandosi sulle confidenze rese dai suoi tradizionali contatti all’interno degli apparati militari e di intelligence statunitensi, il leggendario giornalista investigativo affermò che il generale Zalužny aveva ricevuto dagli Stati Uniti il compito di avviare negoziati segreti con il suo omologo russo Valerij Gerasimov per il raggiungimento di un accordo di pace.

Il disegno di Washington – del tutto inaccettabile per la Russia – contemplerebbe il riconoscimento della sovranità russa sulla Crimea e sui territori ricompresi nella cosiddetta “linea Surovikin”, come contropartita per la rinuncia di Mosca alla neutralità dell’Ucraina, il cui ingresso nella Nato verrebbe subordinato all’impegno dell’Alleanza Atlantica a non impiantare basi militari e a non dispiegare proprie forze nel Paese.

Secondo la versione di Hersh, Zaluzhny beneficerebbe quindi del sostegno degli Stati Uniti, mentre Zelens’kyj sarebbe stato marginalizzato a causa della sua contrarietà a qualsiasi compromesso con Mosca. Più precisamente, il presidente avrebbe ricevuto da emissari di Washington inequivocabili segnali circa il fatto che i negoziati sarebbero proseguiti con o senza di lui.

La narrazione di Hersh trova riscontro nelle rivelazioni del «Times», secondo cui le forti pressioni esercitate da Washington e Londra avrebbero obbligato Zelens’kyj a rivedere i suoi intenti originari, negati con segno dal suo portavoce. E quindi a riconfermare Zalužny, non soltanto perché dotato di grande popolarità in seno alle forze armate e alla cittadinanza – il «Financial Times» menziona in proposito un sondaggio condotto lo scorso dicembre, da cui è emerso che l’88% degli ucraini dichiarava di riporre fiducia in Zalužny, contro il 62% riscosso da Zelens’kyj. Ma anche e soprattutto in quanto esecutore designato della nuova tattica operativa escogitata dall’asse anglo-statunitense alla luce dell’esito fallimentare a cui è approdata la controffensiva ucraina. Un cambio di registro che ufficializza l’abbandono definitivo dell’obiettivo iniziale consistente nella riconquista dei territori ucraini occupati dalla Russia e l’adozione di un approccio completamente nuovo, volto alla trasformazione del conflitto in una lunghissima guerra di logoramento. Il «Washington Post» parla al riguardo di «uno sforzo multilaterale da parte di quasi tre dozzine di Paesi che sostengono l’Ucraina, mirato a garantirne la sicurezza a lungo termine e il sostegno economico […] come dimostrazione di una risolutezza duratura nei confronti del presidente russo Vladimir Putin». Ciascuno di questi sostenitori di Kiev «sta preparando un documento che definisce i propri impegni specifici per il prossimo decennio».

Il primo Paese a orientarsi nella direzione indicata è stato la Gran Bretagna, firmataria di un accordo – suggellato dalla visita del primo ministro Rishi Sunak a Kiev – che impegna Londra a fornire appoggio militare e finanziario di lungo termine all’Ucraina. L’Unione Europea si è mossa a rimorchio, predisponendo un piano di sostegno a Kiev da 50 miliardi di euro che secondo la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen verrà approvato «con o senza l’assenso dell’Ungheria», unico Paese contrario. Svezia, Finlandia e Danimarca si sono spinti perfino oltre, attraverso la sottoscrizione di accordi bilaterali di cooperazione in materia di difesa con gli Stati Uniti, che assicurano alle forze armate statunitensi pieno accesso illimitato alle infrastrutture militari (basi aeree, marittime e terrestri) nella regione scandinava. Nello specifico, si tratta di 17 località in Svezia, 15 in Finlandia e 3 in Danimarca. I tre Paesi hanno concordato di fornire supporto logistico alle truppe statunitensi nei rispettivi territori, e rinunciato al diritto primario di esercitare la propria giurisdizione penale sul personale militare statunitense. Dal canto loro, gli Stati Uniti si sono impegnati a coprire i costi legati all’eventuale sviluppo di infrastrutture militari a loro uso esclusivo.

Naturalmente, sottolinea il «Washington Post», «il successo di questa strategia continua a dipendere quasi interamente dagli Stati Uniti, vale a dire il principale erogatore di denaro e armi all’Ucraina, oltre che l’attore incaricato di coordinare lo sforzo multilaterale. Il governo spera di riuscire entro la primavere a formalizzare il proprio impegno decennale, ora in fase di elaborazione da parte del Dipartimento di Stato con la benedizione della Casa Bianca». L’obiettivo consiste nel convincere il Congresso, che lo scorso ottobre aveva bocciato il piano di sostegno “collettivo” da 106 miliardi di dollari predisposto dall’amministrazione Biden, comprensivo di stanziamenti a Kiev per 61,4 miliardi, a tornare sui suoi passi. E quindi nel prolungare a tempo indeterminato l’agonia dell’Ucraina, condannandola senza appello a combattere i russi fino all’ultimo uomo per conto dell’Occidente.

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