di Domenico Moro
C’è uno stretto legame tra la guerra, il dollaro e il debito Usa. L’aggressione di Israele ai danni dell’Iran è avvenuta in un’area, quella del Medio Oriente e del Golfo Persico, che ospita le maggiori riserve mondiali di petrolio e di gas. In particolare, l’Iran detiene le seconde riserve mondiali di gas e le terze riserve di petrolio. Inoltre, attraverso lo stretto di Hormuz, controllato dall’Iran, passa il 30% del petrolio mondiale, diretto verso l’Asia orientale e in particolare verso la Cina, che, a dispetto delle sanzioni statunitensi, acquista il 90% del petrolio esportato dall’Iran.
Pochi giorni dopo lo scoppio dell’attacco israeliano, il Sole 24ore ha titolato in prima pagina “Commercio internazionale, meno dollari e più euro”[i]. Secondo l’autorevole quotidiano economico, la leadership valutaria del dollaro statunitense è messa sempre più in discussione nelle transazioni commerciali internazionali. Una crescente quota del commercio globale comincia ad essere regolata in valute diverse dal dollaro, e cioè in euro, yuan renmimbi cinese, dollaro canadese e altre. Significativo, a questo proposito, è quanto affermato dal responsabile delle vendite di Us Bancorp: “Molti nostri clienti raccontano che i fornitori esteri non vogliono più essere pagati in dollari. Una volta era quasi un dogma. Ora dicono <<Dateci la nostra valuta, basta che paghiate>>”.
Questa tendenza a passare dal dollaro ad altre valute è determinata non solo dalla volatilità del dollaro, che è salito del 7% a fine 2024 ed è sceso dell’8% nei primi mesi del 2025, a causa delle politiche ondivaghe sui dazi di Trump. A pesare è anche l’effetto delle sanzioni che, per esempio, ha condotto Cina, Russia e Iran a usare per le loro transazioni lo yuan renmimbi. Ma, al di là del contingente, si tratta di una tendenza di fondo storica che si collega al declino della potenza economica e militare degli Usa. Secondo il Sole24ore, si sta definendo una architettura valutaria mondiale in cui le riserve valutarie globali non saranno più dominate da una sola moneta ma distribuite tra tre grandi blocchi: Usa, Ue e Cina.
Il controllo geopolitico delle riserve di petrolio e delle sue rotte di trasporto da parte degli Usa e della loro marina militare è fondamentale, perché a causa di questo controllo, le transazioni di petrolio (e di altre materie prime fondamentali) sono sempre avvenute in dollari. Ma ora, come detto, non è più cosi, ad esempio il petrolio iraniano viene venduto alla Cina in yuan renmimbi. Il fatto che le materie prime più importanti siano trattate in valute diverse dal dollaro mina la posizione del dollaro come moneta di riserva mondiale. Fino ad oggi il 58% delle riserve monetarie mondiali erano in dollari e il 20% in euro.
Perché per gli Usa è importante che la loro moneta, il dollaro, sia valuta di riserva mondiale? Perché le banche centrali e le istituzioni finanziarie mondiali, dovendo accumulare riserve in dollari, acquistano asset in dollari, a partire dai buoni del Tesoro americano. L’acquisto di questi ultimi è fondamentale, perché gli Usa hanno bisogno di finanziare un enorme debito pubblico. Ma non si tratta del solo debito pubblico. Come ha detto recentemente l’ex governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in una intervista su Affari & Finanza “Nel mondo ormai c’è un solo grande debitore, gli Stati Uniti”[ii]. La posizione patrimoniale netta degli Usa – la differenza tra le attività finanziarie detenute all’estero dai residenti negli Usa e le passività finanziarie verso i non residenti – è negativa per oltre 26mila miliardi, il 90% del Pil statunitense.
Questa passività è dovuta a tre fattori. In primo luogo, alla somma nel tempo dei disavanzi commerciali degli Usa, che da decenni importano sempre di più rispetto a quanto esportano. In secondo luogo all’apprezzamento del dollaro nei confronti delle altre valute, cosa che rende, inoltre, meno competitivo l’export. E, in terzo luogo, all’incremento eccezionale, superiore al 370%, delle quotazioni azionarie delle società americane possedute per una quota rilevante da altri paesi. Si tratta soprattutto delle società tecnologiche statunitensi, le cosiddette “magnifiche 7”, che rappresentano da sole un terzo della capitalizzazione del mercato statunitense.
Ad aggravare la situazione debitoria degli Usa è intervenuto il tentativo di Trump di contrastare il debito commerciale attraverso i dazi e la svalutazione del dollaro. Ciò ha portato a un movimento di uscita da tutta una serie di attività americane, dal dollaro, alle obbligazioni e alle azioni. In particolare, la scarsa appetibilità dei titoli di Stato, che ha portato alla discesa dei loro prezzi e all’aumento dei rendimenti, ha condotto Trump a una rapida marcia indietro sui dazi. Nei giorni scorsi, inoltre, si sono impennati anche i prezzi dei credit default swap, di fatto assicurazioni per proteggersi da un eventuale fallimento degli Usa, perché si teme una crescita incontrollata del loro debito pubblico.
La guerra tra Israele e Iran va inquadrata anche in questo contesto economico. Il debito crescente impone agli Usa di collocare i propri titoli di stato sul mercato, ma questo risulta difficile se il dollaro perde lo status di moneta di riserva, che può essere conservato solo se il dollaro rimane valuta di scambio internazionale. Per rimanere valuta di scambio internazionale il dollaro deve essere utilizzato come mezzo di transazione delle materie prime più importanti, a partire dal petrolio e dal gas. Ciò comporta il controllo, politico e militare, da parte degli Usa delle aree dove avviene la produzione di petrolio e di gas e dove ci sono la maggior parte delle riserve.
Come detto, l’area dove sono concentrate le maggiori riserve di materie prime energetiche è il Golfo persico, dove si affacciano Arabia Saudita, Kuwait, Quatar, Emirati arabi e Iran. Quindi, il controllo del Golfo persico è essenziale per gli Usa sia dal punto di vista economico, per le ragioni che abbiamo espresso sopra, sia dal punto di vista geopolitico, perché, controllando il Golfo persico, si controllano anche i paesi alleati, come il Giappone, e avversari, come la Cina, che dipendono da quell’area per il loro rifornimento di petrolio e altre materie prime strategiche.
Per controllare il Golfo e il Medio Oriente è subito apparso necessario all’imperialismo occidentale, sin dall’Ottocento, il controllo dell’Iran, il paese più importante dell’area come popolazione, storia e posizione geografica. La Gran Bretagna esercitò per prima questo controllo, venendo affiancata successivamente dagli Stati Uniti. I due paesi anglosassoni favorirono il colpo di stato militare che nel 1953 rovesciò il primo ministro iraniano, Muhammad Mossadeq, che ebbe la grande colpa di aver nazionalizzato la produzione di petrolio, sottraendola alla Gran Bretagna. Successivamente l’Iran divenne di fatto una colonia britannica e statunitense, fino alla deposizione dello scià, Reza Pahlavi, da parte della Rivoluzione iraniana nel 1979.
Quindi, dal 1979 l’Iran si è sostanzialmente sottratto al controllo occidentale, divenendo una spina nel fianco per gli Stati Uniti e la loro politica di egemonia sul Medio Oriente. Per questa ragione, agli occhi degli Usa, il controllo totale di quest’area passa per la distruzione dell’Iran come stato indipendente. All’opposto, Israele rappresenta la longa manus dell’imperialismo occidentale e statunitense nell’area. Quindi, la guerra in atto si inquadra in questo contesto e, da questo punto di vista, rappresenta l’ultimo episodio dello scontro tra Iran e imperialismo statunitense.
[i] Vito Lops, “Commercio estero, la richiesta è meno dollari e più euro”, Il Sole24ore, 18 giugno 2025.
[ii] Walter Galbiati, “Nel mondo c’è un grande e solo debitore, gli Stati Uniti”, Affari & Finanza, la Repubblica, 16 giugno 2025.
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