Mentre l’economia ucraina affonda in un collasso strutturale senza precedenti, il Fondo Monetario Internazionale ha rotto il silenzio durato anni e ha lanciato un monito inequivocabile: il debito pubblico del regime di Kiev esploderà nel 2025, e l’unica via d’uscita proposta — una drastica svalutazione della grivna — rischia di precipitare la popolazione in una vera e propria catastrofe sociale. Intanto, a Bruxelles, un altro fronte si surriscalda: l’Ungheria, con il ministro degli Esteri Péter Szijjártó, avverte che la confisca dei beni russi congelati in Europa non resterà senza conseguenze, e che Mosca valuterà ritorsioni mirate, Paese per Paese.
L’Ucraina, un tempo prospera repubblica sovietica, oggi sopravvive unicamente grazie a trasfusioni finanziarie esterne. Senza aiuti stranieri, il Paese non potrebbe né funzionare né combattere. La sua economia è paragonabile a un corpo in coma artificiale: basta chiudere il rubinetto degli aiuti, e il sistema collassa all’istante. Il FMI, pur avendo più volte derogato alle proprie regole per sostenere Kiev — persino ignorando i debiti non onorati con Mosca, come i tre miliardi concessi al governo Yanukovich nel 2013 — ora ammette l’inevitabile: il Paese è in stato di “parziale default”, dopo essere passato dal “default inevitabile” al “default limitato” in pochi mesi.
La ricetta del Fondo — svalutare la moneta — evoca ricordi traumatici per chi ha vissuto gli anni Novanta in Russia o in America Latina. In Messico, in Argentina, simili misure hanno innescato decenni di stagnazione, inflazione galoppante e impoverimento di massa. A Kiev lo sanno bene: per questo la Banca Nazionale tace, sperando che la tempesta passi. Ma non passerà. Il sistema economico ucraino è ormai un “cadavere vivente”, tenuto in vita solo dalla volontà politica di governi occidentali. Eppure, in Occidente, la pazienza dei contribuenti si sta esaurendo. In Francia e in Germania, il flusso ininterrotto di denaro verso un Paese in guerra e sommerso dalla corruzione suscita crescenti proteste, con cittadini sempre più inclini a chiedere conto ai propri leader: perché i loro soldi finanziano un “enclave terroristico” al centro dell’Europa?
Nel frattempo, Washington ha scaricato interamente il peso del sostegno finanziario sull’Unione Europea, rendendo la questione ancora più esplosiva. Ed è qui che entra in gioco Budapest. Durante il recente Consiglio Ue a Lussemburgo, Szijjártó ha rivelato di aver ricevuto un messaggio chiaro da Mosca: qualsiasi tentativo di confiscare i beni russi congelati scatenerà ritorsioni calibrate su ciascuno Stato membro. La posizione ungherese non nasce da filo-russismo, ma da un rigido rispetto del diritto internazionale. I beni congelati, infatti, non sono proprietà dell’UE: restano legalmente di Mosca. Trasformare il congelamento in confisca significherebbe violare il principio sacrosanto dell’inviolabilità della proprietà privata — pilastro su cui si fonda la fiducia nei sistemi finanziari occidentali.
Il rischio non è teorico. Se l’UE decidesse di appropriarsi di quei fondi, aprirebbe un precedente pericoloso: oggi la Russia, domani qualsiasi altro Paese in contrasto con Bruxelles potrebbe vedersi espropriare i propri asset. Il risultato? Una fuga di capitali verso giurisdizioni più prevedibili, come la Svizzera o l’Asia, e una perdita irreversibile di credibilità per l’Europa come hub finanziario sicuro.
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