di Pasquale Liguori
Due editoriali apparsi in questi giorni, firmati da noti esponenti del pensiero critico liberal-progressista, offrono – senza volerlo - uno spiraglio per evadere dagli aspetti più disonesti e grotteschi della cronaca occidentale su Gaza. Omer Bartov, docente di Studi su Olocausto e genocidi alla Brown University, afferma sul New York Times che Israele sta commettendo un genocidio a Gaza, con la distruzione sistematica di un gruppo - quello palestinese - in quanto tale. Adam Shatz, sulla London Review of Books, descrive Gaza come l’epicentro di un nuovo ordine regionale, in cui Israele, galvanizzato dalla propria ferocia devastatrice e sostenuto da una destra globale in ascesa, esercita un dominio imperiale impunito, alimentato da razzismo strutturale e da una retorica espiatoria del trauma ebraico.
Gli articoli, corposi, peccano tuttavia di innocenza. Bartov è stato tra i primi a dubitare che a Gaza si stesse consumando un genocidio. Almeno otto mesi di crimini di massa sono stati per lui necessari per “riconoscere” un’evidenza già lampante nelle settimane immediatamente successive al 7 ottobre, presente nelle stesse parole di Netanyahu quando invocava bibliche vendette contro Amalek, o da quelle di altri esponenti israeliani che definivano i palestinesi “animali umani”. Bartov, che insegna genocidio da 25 anni, ammette solo ora la natura genocida degli atti commessi da Israele e lo fa attraverso un editoriale interamente incentrato sulla crisi morale dello Stato ebraico. La sua è una preoccupazione tipicamente occidentale: cosa ne sarà del credito etico di Israele? Che futuro avranno gli studi sull’Olocausto, sull’antisemitismo, sul genocidio, dopo questa frattura imposta dagli eventi di Gaza? Della Palestina, quasi nessuna parola: Bartov sorvola su autodeterminazione, ritorno, liberazione. È vago, anzi neutro, sull’assetto futuro: due Stati, uno Stato, una confederazione… tutto è secondario. L’importante, per lui, è che Israele “non si trasformi in uno Stato di apartheid” - come se non lo fosse già da decenni.
Anche Shatz, affrontando un’ampia analisi del contesto regionale, riconduce tutto a uno sguardo interno alla cultura liberal occidentale. Denuncia l’uso strumentale dell’antisemitismo da parte delle destre, confida in un risveglio democratico progressista, elogia figure come Mamdani, candidato sindaco a New York. Tutto si consuma e si risolve entro i confini di una difesa liberal: un mondo che critica Israele per salvarlo, che denuncia la sua brutalità per impedirne il tracollo, che parla della Palestina solo per rilegittimare sé stesso.
Che a Gaza sia in corso un genocidio non è più oggetto di dibattito. È un dato nudo, crudo, documentato in tempo reale. Non c’è bisogno di attendere le pronunce dei tribunali internazionali - forse tra qualche anno, forse mai - né di frugare nel catalogo delle fattispecie in materia previste dallo Statuto di Roma. Il genocidio è un’evidenza che gronda sangue e storia, non una questione terminologica. Si manifesta nella distruzione sistematica di un popolo, nella sua fame forzata, nello sterminio deliberato dei suoi bambini, nella cancellazione delle sue case, dei suoi archivi, dei suoi ospedali, del suo stesso nome.
E tuttavia, proprio mentre la macchina della morte si perfeziona, con Gaza sepolta viva sotto le bombe, emerge un’altra dinamica, subdola e perversa: quella che, qui in Occidente, trasforma il termine “genocidio” in un marchio, una moneta simbolica da spendere nei circuiti autoreferenziali del potere morale. La denuncia del genocidio diventa così un passe-partout per il riconoscimento sociale, un badge da esibire per accreditarsi nel circo politico-mediatico. Si assiste, senza troppo stupore, a un fenomeno di appropriazione: il genocidio palestinese diventa per alcuni uno strumento narrativo per esistere pubblicamente, posizionarsi, essere riconosciuti, traendo profitto dalla propria autoreferenzialità.
Non si può ridurre un genocidio in corso a terreno di valorizzazione simbolica per figure istituzionali che, per quanto “solidali”, parlano da una posizione di estraneità. Il genocidio, così, smette di essere verità bruciante e si fa oggetto del discorso, parola d’ordine gestita da soggetti che ne fanno uno strumento di autorappresentazione.
Questo processo ha un nome: espropriazione morale. Il genocidio diventa uno spazio semiotico in cui si esercita il potere narrativo dell’Occidente progressista, che si autoassolve attribuendosi il merito di aver “riconosciuto” ciò che in realtà ha lasciato accadere o, peggio, ha attivamente sostenuto. La denuncia arriva sempre troppo tardi, e nel frattempo i palestinesi muoiono. Non metaforicamente: muoiono.
È necessario dirlo chiaramente: il termine “genocidio” non appartiene a costoro. Non è parola da declinare in terza persona, né da trasformare in hashtag per campagne patetiche, né da convertire in capitale simbolico per inutili convegni. È una parola che appartiene alla storia e al sangue. E il sangue è palestinese.
Da qui nasce l’urgenza di separare il genocidio vissuto da quello raccontato, il fatto bruciante dal discorso strumentale. Anche sul piano culturale e semantico.
Gilbert Achcar, politologo franco-libanese, ha recentemente utilizzato su Le Monde Diplomatique il termine arabo Karitha per descrivere la catastrofe in corso a Gaza: una parola che indica un disastro assoluto, eccedente persino la Nakba del 1948. Uno spunto che qui induce a proporre una distinzione necessaria - non per sostituire il termine “genocidio”, che già contiene in sé la più estrema gravità, ma per marcare una linea di confine tra la tragedia vissuta e la sua caricatura discorsiva. Karitha è un grido, non una fattispecie giuridica. Non prevede processi né sentenze. Non chiede riconoscimento, ma impone ascolto. La Palestina ha una voce che rompe il ricatto della legittimazione esterna e afferma la propria narrazione al di fuori dei codici dell’Occidente giuridico e del suo umanitarismo.
Vale la lingua della decolonizzazione, il lessico proprio della sofferenza palestinese, l’atto radicale di nominare la catastrofe secondo il proprio mondo, la propria storia, la propria spiritualità politica. Un discorso che disinnesca e smaschera l’utilizzo strumentale che viene fatto del termine “genocidio”, e lo restituisce alla verità incarnata nei corpi, nei lutti, nella memoria e nella resistenza. Mentre l’Occidente si accapiglia nel pollaio-dibattito sul numero dei morti e sull’intenzionalità dello sterminio, quel “Karitha” si erge come presidio ideale: non è peggio di genocidio, è oltre il genocidio. Lo supera, restituendogli il suo senso pieno. Lo libera dalla prigionia simbolica occidentale e lo riconduce alla terra, al sangue, al cielo di Gaza.
È il genocidio che non chiede riconoscimento dall’Onu, né dalla Corte penale internazionale, né dai rapporti delle Ong. È la verità palestinese sottratta all’arbitrio del linguaggio coloniale. È il punto di rottura: lì dove l’umanità del popolo palestinese non ha più bisogno di mediatori per essere detta, creduta, esistere.
Ed è solo a partire da questa verità che può germogliare ciò che verrà. La Palestina libera non nascerà da una sentenza dell’Aia, né da una risoluzione Onu. Nascerà da questo riconoscimento: Karitha/genocidio non è solo dolore, ma seme. Ogni massacro, ogni distruzione è fondamento di una nuova identità: non vittimaria, ma resistente. Che non chiede compassione, ma giustizia. Non pietà, ma liberazione.
In questo senso, anche i più “nobili” tentativi occidentali di nominare la tragedia palestinese falliscono nel momento in cui cercano di incasellarla, validarla attraverso i vincoli tecnici di un catalogo del male. Il genocidio, parola terribile, è stato degradato dalle dialettiche accademiche, giuridiche, mediatiche. Ma Gaza non ha tempo per queste dispute. Gaza non aspetta che il mondo trovi una definizione corretta dello sterminio.
Sulla questione, in definitiva, Bartov e Shatz tracciano i confini del pensiero occidentale. Ma è tempo di varcarli. Perché da questa parte del mondo non possiamo più permetterci di decidere chi ha il diritto di parlare. Siamo una “civiltà” che sostiene quel genocidio, figuriamoci se può vantare al suo interno la levatura morale per candidare qualcuno e assegnare premi per la pace.
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