di Michele Blanco*
Come afferma da sempre la tradizione marxista, e non solo essa, da quando esiste l’agricoltura e non siamo più cacciatori-raccoglitori, ogni società umana non fa altro che giustificare le sue
disuguaglianze: bisogna trovarne le giustificazioni, altrimenti l’intero edificio politico e sociale rischia inesorabilmente di crollare. Ogni epoca produce quindi discorsi e ideologie che non fanno altro che legittimare la disuguaglianza esistente e chi detiene il potere non fa altro che
cercare di descriverla come una cosa naturale. Le regole economiche, sociali e politiche che strutturano l’insieme delle società sono costruite dalle classi al potere per giustificare e implementare, quanto più possibile, i loro privilegi. Nelle società contemporanee, la narrazione dominante è quella “meritocratica” già analizzata da Michael Young negli anni Cinquanta in un libro capito a rovescio (Meritocracy era una satira, ma recentemente è stato preso come un manuale per far carriera). Piketty riassume così lo storytelling del neoliberismo: la disuguaglianza moderna è giusta, perché deriva da un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà, e dove tutti beneficiano spontaneamente dell’accumulazione dei più ricchi, che sono anche i più intraprendenti, i più meritevoli e i più utili. Ma in modo preciso Piketty ribatte che: «Sotto
la copertura del “merito” e delle “capacità” personali, vengono in realtà perpetrati i privilegi sociali, perché i gruppi svantaggiati non hanno i codici e la strumentazione dialettica con cui viene riconosciuto il merito. La popolazione studentesca è aumentata moltissimo […] Ma la classe operaia ne resta quasi completamente esclusa». Il caso limite è quello dei braccianti agricoli. Secondo le statistiche, pressoché identiche in tutti gli stati occidentali, meno dell’1% per cento dei figli di questi lavoratori accede all’istruzione universitaria, al confronto del 70% per cento dei figli degli industriali e all’80% dei figli dei professionisti.
Insomma il «privilegio culturale e simbolico è più subdolo, perché si presenta come il risultato di un processo liberamente scelto in cui tutti, teoricamente, hanno le stesse possibilità». L’economista francese sottolinea che questa visione, in teoria, si colloca all’estremo opposto rispetto ai meccanismi della disuguaglianza nelle società premoderne, che si basavano su rigide, arbitrarie e spesso dispotiche disparità di status. Il problema, egli afferma, è che questa grande narrazione proprietaria e meritocratica ha avuto la sua prima costruzione nell’Ottocento, dopo il crollo delle società dell’Ancien Régime, e una conferma ancora più radicale e diffusa a livello mondiale dopo la caduta del comunismo sovietico e il trionfo dell’”ipercapitalismo”, ma ogni giorno di più ci appare sempre più fragile e frutto di una invenzione non basata sui fatti.
In Capitale e ideologia troviamo un allargamento dell’analisi verso culture diverse da quelle dei tradizionali paesi occidentali. Si studiano tutte le società mondiali, con metodo che trae spunto dalla solida base economico-statistica di studi sulla proprietà e sul reddito, che arriva ai giorni nostri partendo il più lontano nella storia, da dove è stato possibile reperire i dati. La scelta del titolo Capitale e ideologia deriva dall’importanza che Piketty attribuisce agli argomenti ideologici con i quali le diverse società inegualitarie hanno giustificato la propria struttura e ne hanno ipostatizzato l’inevitabile “naturalità”. Piketty non nasconde l’obiettivo culturale e politico della propria ricerca: fornire degli strumenti di interpretazione e di azione al formarsi di quella che egli chiama una coalizione egualitaria, che si ponga l’obiettivo di superare il capitalismo verso una società giusta per il XXI secolo, basata sul socialismo democratico partecipativo.
*Pubblicato in M.Macchi, F.Repetto e il Circolo Thoth, Le Vie della filosofia, volume 3, pp. 488-490, editore Federico Repetto, Rosta (To), 2024.
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