Censura, Facebook e Casapound: l'importanza della sentenza del Tribunale di Roma


E dire che non pochi “a sinistra” avevano salutato, addirittura, come una “vittoria dell’antifascismo” la chiusura dell’account Facebook di CasaPound. Ora chissà che diranno davanti alla sentenza del Tribunale civile di Roma che ha ordinato a Facebook la riattivazione dell’account condannando l'azienda al pagamento di 15mila euro di spese legali e a 800 euro di penale per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione del provvedimento.


La chiusura dell’account di CasaPound era stata spiegata, il 9 settembre, da Facebook con questo comunicato: “Le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia. Gli account che abbiamo rimosso oggi violano questa policy e non potranno più essere presenti su Facebook o Instagram". (sottolineatura mia)


La sentenza del Tribunale civile di Roma, invece, evidenzia che dato la rilevanza assunta nella nostra società, Facebook è da considerarsi alla stregua di un servizio pubblico e non può imporre agli utenti le proprie regole così come farebbe un privato.


“È infatti evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network ad esso collegati) con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici (49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento. Ne deriva che il rapporto tra Facebook e l’utente che intenda registrarsi al servizio (o con l’utente già abilitato al servizio come nel caso in esame) non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi in quanto una delle parti, appunto Facebook, ricopre una speciale posizione: tale speciale posizione comporta che Facebook, nella contrattazione con gli utenti, debba strettamente attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finché non si dimostri (con accertamento da compiere attraverso una fase a cognizione piena) la loro violazione da parte dell’utente. Il rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali costituisce per il soggetto Facebook ad un tempo condizione e limite nel rapporto con gli utenti che chiedano l’accesso al proprio servizio”.


Finisce così a pezzi l’isterico concetto di “odio” (già istituzionalizzato da una sbalorditiva Commissione parlamentare) assolutamente indistinguibile da altri, pienamente legittimi (quali: frustrazione, esasperazione, rabbia, indignazione…) e che sarebbe dettato da patologici moventi. Ci sembra, quindi, (pur restando la disistima verso CasaPound) una bella notizia la sentenza del Tribunale civile di Roma.
Anche perché ci aspettiamo che ora vengano riammessi su Facebook i tanti cacciati per essersi espressi fuori dal coro. Ad esempio, sulla guerra alla Siria e sul sionismo.


Francesco Santoianni

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