Afghanistan, il massacro di Dast-i Leili, senza testimoni inviati speciali

Di Maria Morigi

In Afghanistan il diluvio dei bombardamenti ebbe il via il 7 ottobre 2001 con l’operazione Enduring Freedom.

L’invasione del territorio controllato dai Talebani vide all’opera Usa e Regno Unito che fornivano supporto tattico, aereo e logistico ai gruppi dell’Alleanza del Nord.

Nessun inviato speciale a documentare le distruzioni di villaggi e più grandi città.

Nessun inviato speciale a raccontare le sofferenze e le morti di civili afghani: pastori e capre, bambini a scuola, donne che vendevano il pane al bazar, contadini al lavoro nei campi, fedeli presso la moschea di villaggio.

Le tappe principali del conflitto tra novembre e dicembre del 2001 registrarono l’avanzata verso Mazar-i Sharif, la caduta di Kabul, la caduta di Kunduz, la rivolta nella fortezza di Qala-i Jangi (dintorni di Mazar i Sharif, quartier generale del signore della guerra comandante dell’Alleanza del Nord, Abdul Rashid Dostum alleato degli USA), infine la presa della roccaforte di Kandahar che segnò la fine dell’Emirato islamico.

Nella fase dei combattimenti appena successiva alla rivolta di Qala-i Jangi si compì una delle peggiori stragi della guerra afghana: il massacro di Dast-i Leili che si tentò invano di tenere nascosto al pubblico mondiale ma ben documentato in “Caos Asia” di Ahmed Rashid, Feltrinelli 2008. Una ricca testimonianza della doppia morale praticata dagli USA e ammannita dai media.

Successe Il 21 novembre 2001 a Kunduz quando circa 8000 uomini - Talebani, combattenti e civili di etnia Pashtun, Ceceni, Uzbeki e sospetti membri di Al Qaeda - si arresero al comandante dell’Alleanza del Nord, Abdul Rashid Dostum. Gli 8000 prigionieri furono caricati su container per essere trasportati al carcere di Sheberghan in un viaggio di vari giorni nel deserto. Di loro non si seppe più nulla: la maggior parte dei prigionieri non fu mai più vista. Il fatto non passò sotto silenzio perché 8000 uomini non sono un’inezia e quasi tutti avevano una famiglia e/o qualche conoscente influente.

Sulla stampa occidentale apparvero articoli che con insistenza chiedevano che cosa fosse successo e in quale misura fossero coinvolti gli USA in quella ‘liquidazione’ che aveva tutta l’apparenza di un massacro ed un crimine di guerra (articolo sul “Guardian” del 2 dicembre 2001). In seguito venne identificato il sito in cui erano stati seppelliti i corpi e sottoposto ad indagini da parte di esperti di medicina forense dell’associazione Medici per i Diritti Umani, che disseppellirono ed analizzarono alcuni corpi verificando che mostravano segni di morte per soffocamento.

Il tentativo di far cadere l’episodio nell’oblio fallì grazie al lavoro del documentarista irlandese Jamie Doran che, inseguendo le notizie del massacro, si recò nel 2002 sul posto dove ebbe modo di intervistare testimoni, partecipanti, militari, sopravvissuti e gli specialisti di medicina forense. Nacque così un documentario trasmesso nell’estate del 2002 in Europa ed in altre nazioni (ma vietato negli USA). Il presidente Obama solo nel 2009 ordinò un’indagine, che fornì risultati evidentemente troppo scottanti per essere pubblicati.

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