La base russa e l'influenza islamista nella regione: cosa sta accadendo in Sudan

18 Aprile 2023 08:00 Piccole Note

Il conflitto del Sudan, che ha causato un centinaio di morti, al solito, è trattato in maniera superficiale. La narrativa mainstream si riduce a inquadrare lo scontro come un’altra malvagità russa, dal momento che a insorgere contro il legittimo governo sono le forze di reazione rapida (RRF) guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemeti, che sarebbe supportato dalla Wagner.

Da qui il corollario della narrativa, con la descrizione a tinte fosche del generale suddetto e delle sue RRF, che in Darfur hanno fatto in effetti macelli. Il punto è che, in realtà, anche se buona per supportare la narrativa anti-russa, tale spiegazione non inquadra quanto sta avvenendo, dal momento che l’avversario di Hemeti non è certo un figlio di Maria, avendo preso il potere a seguito di un golpe (al tempo supportato dal suo odierno avversario, poi pentito) e avendo infierito con ferocia contro i manifestanti che scendevano in piazza per protestare contro la sua presa del potere.

Sul golpe avevamo scritto al tempo, riportando quanto riferito dai media israeliani: “Il sospetto che i funzionari israeliani fossero a conoscenza del complotto, se non addirittura complici – scrive Yonatan Touval, su Haaretz – è emerso quasi subito, quando è stato reso pubblico un documento che riferiva di una visita segreta di una delegazione della sicurezza sudanese in Israele poche settimane prima [del golpe]”.

“Un sospetto che sembrava confermato in pieno alla luce della rivelazione che una delegazione israeliana, composta da personale della Difesa e del Mossad, si era recata a Khartoum all’indomani del golpe per colloqui”.

La repressione

Al colpo di stato, come accennato, è seguita una dura repressione, dal momento che le piazze hanno continuato a riempirsi dei manifestanti che avevano contribuito non poco a porre fine all’oscuro regime di Omar al Bashir, al potere dall’89 fino al 2019 (sotto al Bashir, Osama bin Laden aveva trovato un asilo sicuro nel Paese). A sostenere le proteste, le forze politiche che avevano formato un governo civile dopo la caduta di al Bashir, durato fino al golpe del 2021.

Ma a nessuno dei media che oggi piangono le sorti del povero Sudan importava nulla dei morti ammazzati dalle forze golpiste attualmente al potere. Riportiamo, a titolo di esempio, quanto riferiva Africa Report nell’ottobre del 2022: “A Omdurman, dall’altra parte del Nilo rispetto a Khartoum, un manifestante è stato ‘investito da un veicolo delle forze (di sicurezza)’, ha dichiarato il Comitato centrale dei medici sudanesi in un comunicato, portando a 119 il bilancio delle vittime della repressione dal colpo di stato”.

E ancora, il 1 luglio 2022, Michelle Bachelet, Commissario per i diritti umani dell’Onu, nel denunciare l’assassinio di nove manifestanti, aggiungeva: “La maggior parte delle persone uccise sono state colpite al petto, alla testa e alla schiena. Le forze di sicurezza hanno poi arrestato almeno 355 manifestanti in tutto il paese, tra cui almeno 39 donne e un numero considerevole di bambini”.

Il bagno di sangue si era concluso con un accordo tra le varie forze del Paese, garantito a livello internazionale, che lasciava al potere ad al Burhan per un periodo transitorio che avrebbe dovuto scadere più o meno in questi giorni, quando un nuovo accordo tra le parti, in particolare con l’altro uomo forte sudanese, Hemeti, avrebbe dovuto portare al potere un governo civile. Ma quest’ultima intesa è saltata.

Si registra, ad esempio, una visita del ministro degli esteri israeliano Eli Cohen a Khartoum di inizi gennaio, riguardo la quale Middle East Eye registrava l’irritazione di Hemeti “per non essere stato informato”. Mentre al Jazeera annotava che “dopo la rimozione di al-Bashir, gli Stati Uniti e le nazioni europee hanno iniziato a competere con la Russia per l’influenza in Sudan, che è ricco di risorse naturali, tra cui l’oro”. Infatti, tanti vogliono mettere le mani sull’oro sudanese gestito dai militari.


La base russa e l’influenza islamista nell’esercito regolare

A complicare vieppiù le cose, l’accordo tra Karthoum e Mosca per creare una base navale a Port Sudan, la prima base russa in Africa e per di più sullo strategico Mar Rosso. Un accordo oggetto di lunga trattativa e che si è concretizzato alcuni giorni fa, suscitando l’ira degli Stati Uniti che hanno minacciato il Sudan di “conseguenze“.

Ma ufficialmente il casus belli è la crisi dei negoziati per porre fine all’attuale regime militare, con l’ennesimo rinvio della nascita di un governo civile. Pomo della discordia delle trattative, l’integrazione delle forze di reazione rapida nell’esercito regolare.

Al Burhan, riferisce Middle East Eye, puntava a un’integrazione rapida di tali forze, così da diluirle nell’esercito regolare esautorando di fatto Hemeti, il quale invece chiedeva tempi più lunghi, così da preservarne il potere.

Altro punto controverso, annota ancora MEE, “l’influenza e la presenza nell’esercito regolare di potenti figure islamiste dell’era Bashir [si ricordi, sul punto, l’ospitalità concessa a Bin Laden ndr.]. Hemeti ha insistito affinché il problema venisse affrontato, mentre i rappresentanti dell’esercito negavano l’influenza islamista”.

Infine, un’altra nota discorde rispetto alla narrativa corrente: Hemeti, negli ultimi tempi, era diventato il più acceso sostenitore del passaggio di consegne ai civili, suscitando reazioni nei suoi colleghi d’armi. Controversie acute, che negli ultimi giorni sono precipitate.

Insomma, si tratta di un puzzle complesso quanto confuso, con tante criticità. Ufficialmente tutto il mondo chiede la fine del conflitto: dai russi alla Cina, dai Paesi africani e mediorientali all’Occidente. Resta da vedere quanti di questi attori internazionali, nel segreto, sperano di lucrare sulla guerra.

A margine della vicenda, va sottolineato l’appello congiunto per la pace in Sudan del Segretario di Stato Usa Anthony Blinken e del suo omologo britannico James Cleverly. Segnale ulteriore che per Washington l’anglosfera ha ormai assunto un’importanza strategica maggiore del partenariato con la Ue.

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