di Francesco Erspamer*Il mio senso di appartenenza e di responsabilità sociale, la mia consapevolezza di essere un soggetto solo in quanto in relazione con altri soggetti (e in quanto individuo di non essere niente), si sono formati in alcune istituzioni: tre sono quelle indicate da Hegel e oggi denigrate dai liberisti che si fingono di sinistra e ignorate dai liberisti che si fingono di destra: lo Stato, la Chiesa, la famiglia. Anche quando mi sentivo un ribelle, anche quando pensavo di emanciparmi non andando a messa, anche quando mi sono allontanato dai miei cari per andare a lavorare altrove, non ho mai perso il rispetto per le mie radici e la curiosità per il passato collettivo a cui appartengo; a differenza di molti italiani della mia e delle successive generazioni non mi sono insomma adagiato nel culto del presente, di me stesso (e dei miei presunti diritti umani) e delle magnifiche sorti e progressive (e relative tecnologie, servendomene ma senza diventarne servo); in sostanza, non mi sono americanizzato. Al di là dall’educazione ricevuta in famiglia e nelle scuole pubbliche, ossia statali, andare a vivere negli Stati Uniti è stato un antidoto efficacissimo.
Queste ultime due settimane, passate a Roma, mi hanno fatto ricordare altre istituzioni minori che svolgevano la stessa funzione. Il bar, per cominciare. Al singolare; dunque non i locali da collezionare per sentirsi di moda, quelli suggeriti da conoscenti o «influencer» perché «nuovi», come se la novità fosse in sé una qualità, con nomi e menù rigorosamente in inglese e prodotti globalizzati, adatti ai turisti che vanno altrove per continuare a vivere esattamente come a casa loro e finiscono per vivere da turisti anche a casa propria. No, l’istituzione di cui parlo è il bar sotto casa, a conduzione familiare, in cui si va per espletare un rito comunitario, che include gli altri che lo praticano ed esclude coloro che lo rifiutano. Ce ne sono ancora perché ancora ci sono italiani che ci vanno: che restano leali (un aggettivo e concetto aborrito dai consumisti comunque travestiti) nei confronti delle loro comunità.
Invece non ci sono più, o quasi, librerie capaci di svolgere la funzione aggregante di cui sto parlando, né interessate a farlo. Provate a visitare una qualsiasi Feltrinelli (clamoroso esempio di una palestra di socialismo che è diventata un mercato dell’autocompiacimento consumista); già le vetrine vi avranno annunciato quale è il loro scopo: ci sarebbe posto per cento libri diversi e invece ce ne sono una decina, uno dei quali in cinquanta copie, gli altri dieci ciascuno. A mostrare un po’ di varietà ma limitata, da supermercato, identica ovunque: un po’ come scegliere fra Apple e Samsung. Qui le opzioni sono banalità «woke» e buoniste, guru della finanza, inviti all’autoesplorazione o all’autorealizzazione, esternazioni delle «celebrity» (da dire in inglese perché la celebrità era un’altra cosa). All’interno, scaffali e (sempre di più) tavoli su cui si allineano solo le novità; anche se si tratta di classici, sono esposte edizioni recentissime. Ciò che queste librerie insegnano a chi le frequenti è che conta solo il nuovo. Il resto, suggeriscono implicitamente, va nascosto, cancellato, in modo da evitare che possano sorgere dubbi sui valori dominanti, di destra (successo, avidità, arroganza, egoismo) e di sinistra (globalismo, scientismo, merito, individualismo). Certo, se proprio uno vuole, ci sono librerie antiquarie o dell’usato, sempre di più soltanto in rete (voi direte: «online»), in modo che anche la transgenerazionalità (condizione necessaria di qualsiasi comunità ma assolutamente superflua nelle «community» virtuali) diventi un vezzo individuale.
Triste. Ma non illudetevi: non si tratta di un destino che vi tocca subire. È una scelta, una vostra scelta. Altroché se si potrebbe cambiare. Però comporterebbe un minimo di volontà, qualche sforzo, addirittura qualche sacrificio. A cominciare da quello di non accettare tutto passivamente, di lottare contro chi distrugge la nostra società, le nostre comunità, il nostro ambiente. Ma il coraggio Don Abbondio non se lo poteva dare, figuriamoci i suoi discendenti edonisti, che manco si pongono il problema e che hanno demonizzato la morale per non porselo: è così più comodo rassegnarsi, accontentarsi delle balle raccontate dai giornalisti, consolarsi con qualche feticcio consumistico, far finta di parlare la lingua dei vincitori (gli anglicismi, per lo più tecno-mediatici) per sentirsi dei vincenti. Una massa, non più popolo, di vincenti immaginari.
Non tutti. Anzi, gli amerikani sono ancora una minoranza. Ma non nei media, espressione del più pervasivo totalitarismo che sia mai esistito. La resistenza deve cominciare da lì, difendendo le residue istituzioni che rafforzano il senso di appartenenza e rifiutando quelle che spacciano globalismo, liberismo, individualismo.
*Post Facebook del 16 gennaio 2025