I dazi e l'Europa. L'ingovernabilità nella competizione capitalistica

di Giuseppe Giannini

Nella guerra mediatica dei dazi, economisti, governanti ed imprese si lanciano in previsioni allarmistiche.Viene evidenziato l'impatto dell'aumento dei costi sull'export, ma, come spesso accade, la parte maggiormente danneggiata dalle ripercussioni di tali incrementi, i cittadini – consumatori (perchè le aziende hanno la tendenza di rifarsi all'interno dei mancati introiti), già provati da anni di sacrifici (le politiche austeritarie, la crisi finanziaria del 2008, l'impatto economico-sociale del Covid, e poi l'aumento dei costi energetici e delle materire prime, nonchè le speculazioni, a causa delle guerre) non viene, quasi, presa in considerazione.

Il mondo dell'impresa al centro del dibattito. E' importante sottolineare la distinzione a seconda delle dimensioni delle stesse e, di conseguenza, se operano sul mercato nazionale o anche in quello estero, ma anche il relativo apporto in termini di ricchezza sul PIL. Alla formazione del reddito nazionale concorrono diversi fattori: i consumi, gli investimenti, la spesa pubblica, e l'import-export. Concentrarsi sulle esportazioni vuol dire limitarsi alla produzione di beni, in particolare il lusso e i prodotti di qualità (oli, formaggi), spesso non accessibili per le tasche di una classe lavoratrice italiana depauperata da politiche di rigore finanziario, taglio dei servizi sociali e salari decresciuti nell'ultimo trentennio. Dopodichè, un capitolo a parte dovrebbe aprirsi per valutare l'operato della classe politica europea (statale e sovranazionale) soggetta ai diktat economici e militari degli USA.

Quando Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni esultano per il 15%, dopo aver deciso di salvare le aziende concorrenti americane, di esentare i colossi del web dalla tassazione (a proposito di scorrettezza commerciale delle aziende americane verso quelle comunitarie e di impatto sleale sulle economie del Vecchio Continente), e di aumentare le spese militari a tutto favore sempre degli americani, in seguito a quelle riguardanti il rifornimento del gas liquido, e l'eliminazione dei vincoli green (carbon tax) per le imprese statunitensi, allora tutti capiscono che la questione dazi è parte del problema. Che nasce con la globalizzazione liberista, intensificato dalla digitalizzazione delle economie, in cui convivono la sottrazione della ricchezza sociale dal lavoro al capitale, e che non sono altro che le manifestazioni recenti dell'ideologia capitalista, incentrata sull'accumulazione, lo sfruttamento di risorse e uomini, la competizione selvaggia.

La scelta europea è quella di continuare ad essere sudditi degli Stati Uniti, invece di pensare a politiche economiche di reciprocità (controdazi). Rendere appetibili i prodotti europei sul mercato americano implicherebbe un intervento di spesa pubblica (la fiscalità generale) per agevolare i soliti grandi marchi (Ferrari, i vini costosi ecc.), che non hanno di certo bisogno di aiuti, ed impedire che l'inflazione si ripercuota sui consumatori americani.

Quindi, dopo il danno all'economia delle aziende europee (senza distinguo sulla grandezza delle stesse) la beffa per i consumatori, visto che ad essere avvantaggiati da un eventuale "ristoro" europeo sui prodotti da acquistare saranno i consumatori americani. Allora, perchè non provare ad investire in altri mercati, come la Cina, i Paesi asiatici e dell'America Latina colpiti in maniera più gravosa dai dazi americani? C'è la zona economico-finanziaria dei BRICS. Se gli europei iniziassero a diversificare, maggiormente, gli investimenti e l'export, privilegiando i nuovi mercati, potrebbero con gli scambi ridimensionare lo strapotere del dollaro come valuta di riferimento delle transazioni commerciali.

In Italia, il mondo delle imprese è stato agevolato in ogni maniera possibile dai governi bipartisan della cd. Seconda Repubblica. Il taglio del costo del lavoro, le detassazioni, gli incentivi alle assunzioni (precarie), per poi addossare al fisco le stasi e le crisi aziendali, sacrificando i lavoratori e le loro famiglie. Con lo Stato sempre pronto ad intervenire in soccorso dei grossi marchi, pensiamo ai contratti di solidarietà in assenza di un piano industriale nel caso della Stellantis, ed a scaricare i costi sociali ed ambientali sulla collettività. D'altro canto, come è possibile convivere in un mercato drogato dai giganti del commercio, che determinano le scelte (cosa, come e dove produrre), condizionando i prezzi e la tanto decantata competitività?

Problemi che riguardano ogni parte del mondo. All’interno della visione capitalistica ci saranno sempre aree, territori e persone in competizione da spremere. Che poi vi siano componenti esogene (i dazi in questo caso) colpevoli di destabilizzare i profitti, e turbare il PIL, ebbene esse sono parte integrante dell’economicismo liberista. La produzione industriale italiana è ferma da circa due anni. Un Paese che non cresce nemmeno d’estate e che, a causa dei costi energetici e dell’aumento dei prezzi, perde potere d’acquisto. Invece che ai salari ed alla qualità della vita, si continua a guardare alla competitività (al ribasso) ed al calo dei fatturati (il quale, come detto, dipende da molteplici fattori), che non giovano alle tasche dei contribuenti-consumatori ma solo alla parte (im)prenditoriale. Ed è molto probabile che le aziende esportatrici compenseranno i mancati guadagni dovuti ai dazi aumentando i prezzi dei prodotti distribuiti nelle economie nazionali.

La filiera agroalimentare non ha ricevuto sconti nella trattativa sui dazi. Potrebbero esserci abusi ed eccessi, e mancati controlli. Come successo durante e dopo la stagione del Covid. Da allora, infatti, i beni di prima necessità hanno subito rialzi spropositati. Per tornare al discorso internazionale, limitandoci solo all’ultimo quarto di secolo, possiamo notare come fenomeni tra loro interconnessi – la globalizzazione economica, la crisi finanziaria-immobiliare dei mutui sub prime, la recessione dovuta prima alla pandemia, e poi agli impatti delle guerre, il protezionismo ed ora i dazi – non rappresentino altro che lo svelamento di situazioni glocali irrisolvibili. Perchè gli strumenti pensati per affrontare le policrisi sono inadeguati: bonus, incentivi, detassazioni, ed ammortizzatori sociali, ma non per tutti.

Sono decenni che abbiamo a che fare con queste misure, buone solo a far prendere fiato a chi è in difficoltà, però gli stessi problemi strutturali, anche se in forme diverse, si ripresentano. Invece, occorrerebbe agire ad ogni livello, coinvolgendo tutti i soggetti istituzionali. Soprattutto è doveroso pensare ad un netto cambio di paradigma: produzioni dal basso gestite dai territori di riferimento; politiche pubbliche sussidiarie quando è necessario per far ripartire le economie locali, in un quadro di solidarietà nazionale. E, per quanto attiene i lavoratori: distribuzione e riduzione delle ore lavorative; salario adeguato al potere d’acquisto; riconversione delle economie, privilegiando quelle di prossimità; reddito di base.

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