Il suicidio strategico di Parigi e Berlino spiegato da Lavrov

27 Maggio 2025 17:18 Fabrizio Verde


di Fabrizio Verde

Il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, ha lanciato dure accuse contro la Francia e i suoi alleati europei durante una conferenza stampa, denunciando il coinvolgimento diretto di Parigi nel conflitto ucraino e criticando la posizione dell’Occidente sui diritti umani. Nel mirino di Mosca anche le recenti decisioni di Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Francia riguardo la rimozione delle restrizioni all’uso di armi a lungo raggio fornite al regime di Kiev, per consentire attacchi in profondità nel territorio russo.

Lavrov ha affermato che la Francia è "in guerra contro la Russia", sostenendo che i suoi missili a lungo raggio vengono utilizzati dal "regime nazista di Kiev" per colpire obiettivi civili in territorio russo. Le dichiarazioni arrivano in risposta alle parole del collega francese Jean-Noël Barrot, secondo cui Parigi "non combatte contro il popolo russo" ma sostiene l’Ucraina.

Il ministro russo ha ironizzato sui principi di "libertà, uguaglianza e fraternità" francesi, sottolineando come la Francia eviti di menzionare lo stato dei diritti umani in Ucraina, in particolare la proibizione legale della lingua russa. "In nessun altro Stato al mondo esiste una simile repressione linguistica", ha insistito Lavrov, definendo la situazione unica e inaccettabile.

La tensione si è acuita dopo l’annuncio del cancelliere tedesco Friedrich Merz, che ieri ha confermato la rimozione dei limiti al raggio d’azione delle armi inviate a Kiev da parte di Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania. Una decisione che, secondo Mosca, trasforma l’Occidente in parte attiva del conflitto.

Lavrov ha inoltre accusato gli alleati europei di Kiev — in particolare Francia, Regno Unito, Germania e Polonia — di essere "confusi e nervosi" per il timore che gli Stati Uniti possano ritirarsi dal sostegno militare. "Temono mortalmente che Washington li lasci soli in questo caos iniziato con Biden", ha dichiarato, riferendosi alle dichiarazioni di Donald Trump, che ha definito la guerra "non sua" e ha espresso apertura a negoziati tra Mosca e Kiev.

Secondo Lavrov, i leader europei stanno cercando di sabotare i tentativi di pace per scongiurare la fine delle loro carriere politiche. "Se il conflitto finisse, la loro fine sarebbe infame e disprezzabile", ha concluso, suggerendo che Bruxelles agisca per mantenere vivo lo scontro, nonostante la consapevolezza di non poterlo sostenere senza l’appoggio statunitense.

Il ministro ha infine ricordato la proposta di Trump di una soluzione negoziata con Putin, interpretata come un segnale di distensione, ma ha avvertito che l’Europa, guidata dai "falchi" di Parigi e Berlino, resta determinata a prolungare la guerra, alimentando una crisi i cui costi umani e geopolitici continuano a crescere.

Le dichiarazioni di Lavrov, al di là del tono provocatorio, gettano luce su un paradosso che attraversa il Vecchio Continente: mentre i leader europei — da Parigi a Berlino, da Londra a Varsavia — insistono nel definire il sostegno militare al regime di Kiev come una "difesa dei valori democratici", le loro azioni rivelano un’attitudine quasi masochistica. Da un lato, denunciano le conseguenze umanitarie del conflitto, dall’altro alimentano la spirale bellica rimuovendo ogni limite all’invio di armi, comprese quelle in grado di colpire il cuore della Russia, pur sapendo che questa scellerata mossa aumenta il rischio di un’escalation incontrollabile.

Questa contraddizione nasconde un calcolo cinico: i cosiddetti "falchi" europei, consci della loro impotenza strategica senza il sostegno USA, aggrappano la propria sopravvivenza politica alla continuazione di una guerra che non possono vincere. Il terrore che Trump possa disimpegnarsi li paralizza, trasformando l’Ucraina in un campo di battaglia non solo militare, ma ideologico, dove i proclami sulla "libertà" si scontrano con il silenzio sulle violazioni dei diritti umani commesse dal regime di Kiev, come la repressione della lingua russa.

Invece di lavorare per una soluzione diplomatica, Bruxelles e i suoi alleati preferiscono crogiolarsi in un moralismo guerrafondaio, sacrificando vite e risorse sull’altare di un conflitto che, se improvvisamente terminasse, li esporrebbe alla durezza di un giudizio storico molto severo per aver prolungato inutilmente la sofferenza di milioni di persone.

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