di Lorenzo Ferrazzano
“Ho guardato quest’uomo negli occhi. L’ho trovato molto semplice e degno di fiducia: sono riuscito a capire la sua anima.” Sono le parole che George W. Bush rivolse pubblicamente a Vladimir Putin al summit in Slovenia del 2001, in un momento storicamente decisivo: da un decennio la Russia, il nemico di sempre, stava attraversando un periodo di “torbidi” dai quali non riusciva a rialzarsi; tre mesi dopo, la strage dell’11 settembre sarebbe stata il casus belli della più grande destabilizzazione del Medio Oriente; dopo soli tre anni, contravvenendo alla promessa fatta a Gorbacëv, la Nato si sarebbe espansa verso l’Europa dell’Est, puntando le armi direttamente su Mosca.
Ma in quel giugno del 2001 Putin, da poco presidente della Federazione Russa, era ancora considerato alla stregua di Boris El’cin, il primo presidente della Russia post-sovietica che aprì il Paese alle privatizzazioni selvagge e ai mercati occidentali. E a considerare Putin nient’altro che un burattino erano anche i nuovi oligarchi russi – tutti ex membri della nomenclatura sovietica – arricchitisi velocemente negli anni della shock-therapy, a cominciare da quel Boris Berezinskij che aveva proposto lo stesso Putin come presidente, il quale però ricambiò la nomina con una lotta senza pari che portò all’arresto dell’oligarca.
Oggi Putin, in Occidente, non viene considerato neanche come un capo di Stato, ma più banalmente come un cinico assassino, l’ex colonnello del Kgb che vuole imporre i vecchi metodi sovietici al mondo democratico e liberale. È dunque necessario capire cosa è cambiato rispetto a 18 anni fa e cosa ha portato ad un tale rovesciamento di giudizio.
Il 2004 fu l’anno della prima grave rottura tra Russia e Stati Uniti. Il motivo della crisi non deve essere individuato nella semplice estensione della Nato ad Est, che provocò nei russi quel senso di “contenimento” che il gigante euroasiatico conosceva bene dai tempi dell’Unione Sovietica, ma nella sua conseguenza diretta, ovvero l’installazione del sistema di difesa anti-missili balistici statunitense in Romania e in Polonia, alle porte della Russia.
Secondo il Dipartimento di Stato, il sistema di difesa era necessario per intercettare i missili iraniani e nord-coreani. Per il Cremlino tuttavia si trattava di un pericolo inesistente, come dichiarò Putin stesso in un’intervista dell’epoca, aggiungendo che gli Stati Uniti non volevano “alleati” ma “vassalli”, cosa che “con la Russia non era possibile”. Pochi anni dopo, in un discorso alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco del 2010, Putin parlò per la prima volta della “fine del mondo unipolare”, governato dagli Stati Uniti col sostegno della Nato.
Era ormai chiaro che la Russia non avrebbe sposato la linea atlantista come era successo durante l’epoca El’cin, quando le fu proposto addirittura di entrare nella Nato. Al contrario, la Federazione stava, seppur faticosamente, uscendo dalla crisi economica e sociale che l’aveva inghiottita negli anni ’90, stava riorganizzando l’esercito dopo la disfatta della Cecenia, e stava vivendo delle riforme istituzionali che avrebbero garantito una gestione più ordinata del Paese, anche se non più trasparente di quanto lo fosse negli anni precedenti.
Nel 2014, con la rivoluzione di Euromaidan, è scoppiata quella che si potrebbe definire a ragione la crisi peggiore degli ultimi decenni tra Occidente e Russia. Questa considerò infatti un affronto inaccettabile non tanto la legittima protesta popolare, quanto piuttosto l’aperto sostegno finanziario e politico al regime change da parte degli Stati Uniti, personificato in modo particolare nelle figure del senatore McCain e di Victoria “fuck-the-Europe” Nuland.
Le conseguenze dirette della rivoluzione di Maidan Nezaležnosti furono la guerra nel Donbass, tutt’ora in corso, e l’annessione della Crimea da parte della Russia. Questa provocò l’applicazione delle sanzioni, puntualmente rinnovate, contro il Cremlino, le quali non solo hanno effetti esiziali sull’economia europea, ma che hanno anche spinto la Russia e la Cina, due Paesi tradizionalmente ostili tra loro, a cooperare politicamente ed economicamente, sancendo di fatto la nascita non voluta di un blocco anti-americano.
Il rovesciamento dei piani della Nato e delle monarchie del Golfo di abbattere Assad, con l’intervento militare russo in Siria, ha dato poi dimostrazione del fatto che l’esercito di Putin può vantare un’efficienza diversa rispetto a quella dimostrata in Afghanistan e in Cecenia. Ed è proprio l’esercito russo la fonte di più grande preoccupazione per il Pentagono, il quale è perfettamente consapevole che il “pericolo” russo non provenga dall’influenza economica del Cremlino sul Pil mondiale, ma delle sue risorse nucleari.
La Russia di fatto non è mai riuscita, nel corso degli ultimi vent’anni, a creare una classe imprenditoriale attiva, ponendo la sua economia in stretta dipendenza dall’esportazione delle materie prime. Un fattore che, come ha scritto Yurii Colombo su Il Manifesto, relega la Russia, una potenza nucleare, allo stato di un Paese finanziariamente periferico e semi-coloniale, dipendente in tutto e per tutto dal commercio con l’Occidente e dal prezzo oscillante delle materie prime. Un Paese che tuttavia, proprio in virtù della sua potenza militare, resta in grado di porsi come contraltare alle pretese imperialiste degli Stati Uniti e dei suoi alleati.
La Russia è tornata, nel giro di vent’anni, ad essere uno dei nemici più pericolosi per gli Stati Uniti e i suoi piani egemonici, realizzati – dopo la caduta dell’Unione Sovietica – con estrema disinvoltura dalla Serbia alla Siria. Alla luce di questi eventi deve essere dunque interpretata l’abile attività di propaganda dei governi occidentali, dai casi più delicati come l’accusa – priva di evidenza – del coinvolgimento russo nei confronti di Sergej Skripal, a quelli, non solo privi di evidenza ma anche di credibilità, come il coinvolgimento di Putin nell’elezione di Trump e dei partiti “populisti” in Europa; gli attacchi hacker contro Mattarella e la fabbrica di fake news che da San Pietroburgo inondano l’Europa; l’infiltrazione della Nato con dei motociclisti russi, il coinvolgimento nella Brexit e nel referendum dell’indipendenza della Catalogna.
In Italia il caso più emblematico è quello della Lega, il “Russiagate” europeo. Accusata, senza prove evidenti e solo col condizionale, di essere al soldo del Cremlino, da quando è al governo non ha mai fornito un assist alla Russia. Sulle questioni sanzioni, Tap, Venezuela, Israele, Iran e Via della Seta, tutte le posizioni del Carroccio sono estremamente conservatrici e in linea di continuità con il Partito Democratico.
Troppo facile individuare in Putin l’origine del fallimento dell’Occidente. Più difficile è cercare di elaborare un’analisi autocritica, che dovrebbe essere tutta liberale, sul perché i “populisti” siano andati al potere. La russofobia dei nostri giorni non risponde soltanto alle esigenze propagandistiche di governo degli Stati Uniti e dell’Europa. Essa è il riflesso di una lunga serie di fallimenti con la quale l’Occidente non riesce a fare i conti e che preferisce, per non pensarci, individuare in Putin l’autore di ogni male.
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