di Fabio Massimo Parenti* - CGTN
Già dagli anni Settanta del secolo scorso si cominciava a parlare di uno spostamento del baricentro economico mondiale dall’Atlantico all’Asia-Pacifico. Considerazioni demografiche e dinamiche economiche, con l’emergere delle prime tigri asiatiche portarono studiosi come Giovanni Arrighi, Immanuel Wallerstein e Samir Amin a prevedere la formazione di un nuovo centro di accumulazione globale nella macroregione Asia-Pacifico. Oggi quella previsione è realtà.
A pochi giorni dalla 32a edizione del summit annuale dell’Asia Pacific Economic Cooperation (APEC) - principale cornice istituzionale della cooperazione economica nell’area - è doveroso inquadrare quella che è ormai la regione più dinamica del pianeta. Se l’APEC si configura come un forum multilaterale per promuovere dialogo e liberalizzazione tra 21 membri, che oggi rappresentano circa il 60% del Pil mondiale, altre piattaforme operative asiatiche di coordinamento economico sono state create negli ultimi decenni. L’Asia-Pacifico è infatti cresciuta a ritmi sostenuti, concretizzando accordi commerciali autonomi di grande rilievo, ben distinti dall’APEC, ma coerenti con i suoi princìpi guida. Al riguardo riporto l’esempio più calzante che, a mio avviso, restituisce chiaramente il dinamismo regionale: mi riferisco alla Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), un accordo di libero scambio altamente focalizzato (tra i 10 Paesi dell’ASEAN più Cina, Sud Corea, Giappone, Australia e Nuova Zelanda), che traduce in regole esecutive parte della visione dell'APEC, rappresentandone un approfondimento e un'attuazione concreta in termini cooperativi. Entrambi mirano a promuovere l'integrazione economica nell'area Asia-Pacifico e ad accelerare la liberalizzazione e la facilitazione degli scambi commerciali e degli investimenti.
L’accordo ha unificato e armonizzato i precedenti trattati di libero scambio dell’area, ha ridotto ulteriormente i dazi, ha armonizzato le regole di origine ed ampliato l’accesso ai mercati. La norma più innovativa è quella sul cumulo di origine: per ottenere la certificazione d’origine RCEP, un prodotto deve incorporare almeno il 40% del valore aggiunto generato all’interno dell’area. In questo modo, componenti e semilavorati prodotti nei Paesi membri possono essere liberamente scambiati e assemblati senza perdere lo status di origine preferenziale all’interno della regione. Questa regola ha reso possibile una più profonda integrazione regionale delle catene di approvvigionamento, incentivando la rilocalizzazione produttiva all’interno dell’area e rendendo l’intera regione una piattaforma manifatturiera integrata.
Pur in un contesto di tensioni globali, dunque, l’Asia-Pacifico si conferma l’epicentro dell’economia mondiale, dove gli sforzi ed i risultati conseguiti dalla Cina hanno svolto un ruolo cruciale nel tradurre in realtà i princìpi dell’APEC - liberalizzazione, cooperazione e prosperità condivisa. Dall’analisi dello sviluppo diacronico cinese e dell’Asia-Pacifico emerge distintamente una nuova geografia economica regionale che sembra configurarsi come un esperimento promettente di globalizzazione condivisa, un tassello che dà speranza ed offre opportunità all’idea cinese di un futuro condiviso per tutti.
Come noto, la Repubblica popolare è stata protagonista di quasi cinque decenni di politiche di apertura e riforma, che hanno assunto via via nuove direzioni strategiche per realizzare un equilibrio sostenibile e di sostegno reciproco tra sviluppo interno al livello nazionale e crescente integrazione internazionale. Se negli anni Ottanta la strategia cinese si basava sulle Zone Economiche Speciali costiere, oggi la pianificazione economica territoriale passa per reti di città e regioni integrate, come la Greater Bay Area (Shenzhen–Guangzhou–Hong Kong–Macao), la Cintura Economica del Fiume Azzurro, e la Regione dello sviluppo coordinato tra Beijing, Tianjin e Hebei, nonché nuove zone pilota di libero scambio: dal 2013 fino ad oggi la Cina ha istituito ben 22 Zone di libero scambio più il porto di libero scambio di Hainan, ampliate e trasformate durante l’ultimo piano quinquennale, che fungono da laboratori per l’espansione delle riforme economiche. Queste aree, insieme ai parchi industriali sino-stranieri (come quelli con l’Italia a Ningbo, Tianjin e Shanghai), rafforzano la connessione tra il mercato cinese, i Paesi asiatici vicini ed il resto del mondo, consolidando un ecosistema economico aperto e multilivello.
Negli ultimi dieci anni, mentre l’Occidente ha imboccato la strada del protezionismo e del securitarismo economico, promuovendo guerre commerciali, sanzioni e restrizioni tecnologiche in gran parte del mondo, l’Asia-Pacifico ha continuato a lavorare sulla cooperazione e sull’apertura reciproca, con la Cina all’avanguardia di tali processi. L’Occidente sembra aver abbandonato la strada della globalizzazione non per scelta ideale, ma perché non è più in grado di piegare il resto del mondo ai propri interessi, finendo così per agire in senso contrario a quanto professato per decenni. La versione neoliberale dell’integrazione economica mondiale si è dimostrata problematica per molti Paesi, in quanto guidata dal profitto privato più che dal benessere collettivo dei popoli, e quindi incapace di valorizzare la diversità dei percorsi di sviluppo. Al contrario, ciò che sta avvenendo in Cina e più in generale in Asia-Pacifico rappresenta il tentativo promettente di correggere i difetti della globalizzazione neoliberale, fondandosi su princìpi people-oriented di cooperazione, condivisione, non discriminazione e rispetto reciproco.
Se l’Occidente sembra aver scelto un ripiegamento strategico miope, il dinamismo asiatico segna l’avvio di una nuova fase di globalizzazione multipolare, più equa e fondata sulla complementarità, non sulla competizione a somma zero. Come ha affermato il professor Pino Arlacchi, “l’Asia non si sta dividendo in due campi, ma sta tessendo una fitta rete di relazioni incrociate che trascende la logica manichea della Guerra fredda ... questa geometria variabile sta creando un sistema regionale più resiliente”.
Per concludere, gioverà sottolineare che secondo i resoconti del comunicato della quarta sessione plenaria del XX Comitato Centrale del PCC, pubblicati il 23 ottobre, la Cina intende “promuovere un’apertura di alta qualità e creare nuovi orizzonti per una cooperazione reciprocamente benefica”. In quest’ottica, la Cina continuerà a favorire l’integrazione economica regionale e la cooperazione industriale e scientifica con i Paesi del continente asiatico e il resto del mondo.
La strategia non punta al dominio (idea antitetica alla cultura politica e filosofica cinese), ma alla costruzione di un mercato comune asiatico capace di mantenere aperti i canali del commercio globale a beneficio delle popolazioni coinvolte. Per questo motivo, abbiamo buone ragioni per prevedere una nuova fase di integrazione asiatica nel prossimo futuro, con la Cina nel ruolo di catalizzatore della regionalizzazione multipolare per una globalizzazione condivisa.
Dalle dinamiche nazionali e multinazionali più rilevanti che si stanno dispiegando nello spazio asiatico e, più in generale, nell’Asia-Pacifico, possiamo intravedere un orizzonte strategico promettente per un progresso condiviso: un’Asia più integrata, aperta e tecnologicamente avanzata, che può rappresentare la vera erede del sogno - oggi smarrito - di una globalizzazione riformata, per una comunità umana dal futuro condiviso.
*Fabio Massimo Parenti è professore associato di studi internazionali e Ph.D. in Geopolitica e Geoeconomia
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