di Loretta Napoleoni - Santa Fè
22 ottobre 2024
Se il Covid ha stimolato famiglie e giovani metropolitani a migrare alla ricerca dei grandi spazi e di una vita migliore dagli stati del nord o dalla California in Colorado, Texas, Montana e Utah, ma anche in Georgia, Nord e Sud Carolina, i loro genitori da almeno vent’anni migrano dopo la pensione in Florida, Nevada, Arizona e Nuovo Messico. Un tempo gli ultimi tre erano stati scarsamente popolati, in Montana fino all’inizio del millennio ci abitavano appena 800 mila persone, erano anche stati poveri dove le riverse indiane ancora abbondano.
Durante la guerra, nelle grandi distese desertiche del Nevada, Arizona e Nuovo Messico si testava la bomba atomica.
I pensionati hanno portano insieme alle valigie i comforts della vita metropolitana. Ospedali, centri sociali, campi da golf, bar e ristoranti, che offrono sconti ai senior, sono sbocciati come tulipani all’inizio della primavera nelle cittadine delle zone semi desertiche del sud ovest. Le scuole invece hanno chiuso ed il motivo e’ semplice, questi migranti non hanno figli da mandare a scuola e quindi perche’ finanziarle?
Facile immaginarne l’impatto sociale. In città come Phoenix in Nevada o Tucson in Arizona esistono interi quartieri di anziani e tutta l’economia locale ruota intorno a loro. Paradiso per fisioterapisti, medici, dentisti ma anche per i centri sportivi per pensionati, in questi sobborghi non ci sono giovani e bambini, né scuole, asili nido, bar e discoteche.
Se in Nevada ed Arizona prima dell’arrivo dei pensionati c’era poca vita, in Nuovo Messico esisteva una comunità di artisti ed hippie che dagli anni Sessanta in poi si era trasferita in uno stato considerato tranquillo, lontano mille miglia dalle metropoli della costa est, dal traffico di Los Angeles e dalla politica di Washington DC. Taos, un piccolo villaggio di nativi americani ospitava artisti, musicisti, artigiani della pelle, del ferro, tessitori, e molti hippie che avevano fatto una scelta di vita ben determinata: vivere fuori dall’America ricca ed imperialista.
Santa Fe’, poco distante, offriva una vasta gamma di piccoli negozi dove si potevano comprare per pochi soldi le opere di questi artigiani. La maggior parte dei residenti alternativi non votava, non era interessata alla politica. Chi votava lo faceva per i repubblicani, come in tutti gli stati circostanti.
Santa Fe’ era una cittadina costruita in stile messicano dove tutti si conoscevano. Le abitazioni costavano pochissimo rispetto al resto degli Stati Uniti ed era piena di giovani vestiti con abiti eccentrici. C’erano famiglie e bambini, scuole e bar dove si poteva ascoltare della musica tutte le sere. Oggi Santa Fe’ è una città con 85 mila abitanti, una periferia enorme popolata da gente che lavora per l’economia dei pensionati e per il turismo, il vecchio centro è diventato una galleria d’arte/parco giochi per turisti americani ricchi, i prezzi sono gli stessi di Rodeo Drive. È diventata una sorta di Disneyland messicana. E come Venezia, Firenze, Barcellona e tante altre città, Santa Fe’ ha perso il suo charme.
Cambiata è anche la propensione a votare repubblicano, nelle ultime 8 elezioni presidenziali ben 7 volte il Nuovo Messico ha votato per i democratici. Biden vinse il 54 per cento dei voti contro il 44 di Trump. Stati come il Nevada e l’Arizona, sono diventati swing states, sempre in bilico tra un candidato e l’altro. In Nevada i repubblicani hanno vinto le elezioni presidenziali dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta. Nel 2016, Hillary Clinton ha battuto Donald Trump con un margine del 48 per cento contro il 46 per cento. Nel 2020, Joe Biden ha vinto con circa il 2,5 per cento su Trump. Piccolissimi margini.
Verrebbe voglia di dire che le migrazioni interne sono una delle cause della polarizzazione del paese. Ma non è facile dimostrarlo. Pero’ è innegabile che i due fenomeni vanno di pari passo. La frattura, come hanno sostenuto le magliaie del South Dakota, viene dal cambiamento del tessuto sociale a causa delle migrazioni e dalla velocità con il quale questo avviene. Il Covid ha poi accelerato il tutto.
Un tassista di Santa Fe’ mi dice di aver perso il lavoro in un laboratorio e di aver iniziato a fare le consegne del cibo d’asporto con Uber. Ha ricevuto 1200 dollari soltanto dal governo, lo stesso mi dice una commerciante di Farmington, al confine con la riserva Navajo.
“Bisognava avere dei dipendenti per avere l’assegno, io lavoro da sola. E così mi sono arrivati 1200 dollari e basta. Ma ho tenuto aperto, la gente veniva alla porta e gli davamo quello di cui avevano bisogno. È stata durissima.” Il tassista adesso ha trovato un posto sicuro con l’amministrazione municipale, giuda il taxi per gli extra. “Ho pensato che se succede di nuovo la pandemia il posto fisso mi garantisce un salario”.
Intuisco che la frattura del Covid va alla radice del sogno americano, lo ha eroso con la paura della povertà. Intuisco anche che molti americani pensano che Made America Great Again sia l’unica formula per farlo rinascere, certo e’ solo uno slogan, ma questa America ha talmente bisogno di ritrovare se stessa che si aggrappa a qualsiasi cosa.
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