Trump Returns - i miei 2 centesimi sull'evento del giorno

06 Novembre 2024 14:00 Antonio Di Siena

Un'elezione vinta, un'altra persa, una quasi guerra civile provocata e due attentati subiti (e scampati), di cui uno potenzialmente fatale. Date le premesse, Donald Trump non poteva non rivincere.

Una storia che sembra uscita da un epic movie targato Hollywood, un epilogo che lo consacra – da protagonista assoluto – nel duplice ruolo di eroe e salvatore della patria (per i suoi) e contemporaneamente nel cattivo di turno, ovviamente per tutti gli altri. Ma noi, che americani non siamo (quantomeno formalmente), dobbiamo cercare di capire cosa significa la vittoria di Trump perché – è sempre bene ricordarlo – ciò che avviene oltreoceano ha riflessi diretti e tangibilissimi anche (o soprattutto) a casa nostra.


Chi mi segue da tempo forse ricorda che – oltre a predirne l'elezione già nel 2016 (contro tutti i pronostici) – ne ho sempre parlato non come un fenomeno di costume, un epifenomeno transitorio, ma come il risultato di un sommovimento dalle implicazioni profondissime. Stando ben attento a non finire annoverato tra le fila dei suoi sostenitori (specialmente nostrani), contro buona parte dei quali non ho mai speso parole tenere. Anzi. Un processo politico che (piaccia o meno) affonda le radici nelle più importanti dinamiche di questo inizio di secolo, prima tra tutte il declino (economico e militare) della ormai ex prima superpotenza del mondo.

Di fatto una risposta, verrebbe da dire scomposta e nevrotica, al diffuso sentimento di panico che da almeno due decenni ha investito milioni di cittadini americani. Un tema cruciale che – se a sinistra qualcuno studiasse ancora – ha importanti somiglianze con quanto avviene da anni in Italia e nel resto d'Europa (ma d'altronde avendo il Vecchio mondo irrimediabilmente assorbito l'imprinting ideologico del sistema politico americano, non poteva essere altrimenti).

Cose già dette e ridette, osserverebbe qualcuno un po' più attento. Eppure, a distanza di otto anni dallo “shock” della sua prima vittoria, sembra non essere cambiato nulla. Soprattutto lo stupore tra le fila dei benpensanti, ma anche l'ingenuo entusiasmo della parte opposta, ovvero tra chi ne continua a mitizzare la figura senza capire che un prodotto di un sistema non sarà mai troppo diverso da esso.
Ed ecco quindi che veniamo alle vicende di oggi: perché Trump rivince? E soprattutto, quali conseguenze avrà la sua vittoria sul resto del mondo e sui processi nefasti che ne stanno scandendo il procedere della storia?

Volendo semplificare al massimo la risposta al secondo quesito si potrebbe rispondere “tutto e niente”, ma andiamo con ordine e ribadiamo l'ovvio ancora una volta.
Trump (ri) vince perché (al netto di puritani, escatologisti, fanatici religiosi, suprematisti e cavalieri con lo scolapasta in testa) un pezzo sempre più consistente d'America (ma, come già detto, il discorso vale pari pari pure per l'Europa) ne ha letteralmente piene le tasche del “modello occidentale” così come declinato negli ultimi decenni. Attenzione però. Non ho detto che costoro sono diventati improvvisamente bolscevichi, tutt'altro. Sto dicendo che queste persone, uomini e donne in carne e ossa, schiacciati dagli effetti catastrofici della globalizzazione neoliberista – e stanchi della martellante propaganda che racconta loro il contrario – urlano a gran voce il loro disagio, la loro paura, la loro sofferenza, cercando una cosa soltanto: protezione.

Ovvero una vita mediamente più dignitosa, né più né meno di quella che ha vissuto la generazione dei loro genitori (e che essi ricordano perfettamente). Ma nel vuoto siderale creato da decenni di incultura politica la risposta non può che essere scomposta, istintiva, sragionata. Il che però non elimina il problema, al più rischia addirittura di acuirlo. Soprattutto nelle periferie d'Occidente dove si affermano personaggi ancora più macchiettistici e surreali: uno su tutti Javier Milei, il presidente argentino con la motosega, tanto per rendere l'idea con un'immagine icastica.

Il che ci fa agevolmente capire che il terreno di scontro politico entro cui si afferma Trump (o perché no, il trumpismo come fenomeno politico più generale) è tutto interno, circoscritto al territorio nazionale. In questo caso americano. Volendo essere più precisi un terreno di scontro prettamente economico che contrappone il “vecchio” capitalismo produttivo (quello che, tanto per capirci, creava non solo storture macroscopiche ma pure posti di lavoro e una certa “stabilità”) al moderno capitalismo finanziario, un'entità intangibile che si sposta libera per il mondo e come un rapace famelico depreda risorse, accumula soldi creati dal nulla e condanna fette sempre più consistenti di popolazione un tempo benestante alla miseria (umana e culturale).

E la circostanza che tutto questo stia avvenendo in un paese storicamente stabilissimo come gli USA ci porta dritti al cuore del problema.
Tutto ciò che ha contraddistinto la battaglia politica degli ultimi anni (non solo l'ultima campagna elettorale), non c'entra assolutamente niente con la vera posta in gioco. Non c'entra il razzismo, laddove un decennio guidato da Obama non ha migliorato di un milligrammo la condizione di milioni di afroamericani. Non c'entra nulla la brutalità della polizia, George Floyd muore a Minneapolis, Minnesota, dove sindaco, governatore dello Stato e capo della polizia sono democratici. Non c'entra nulla l'immigrazione, soprattutto se un candidato come la Harris finisce per sostenere non solo regole ancor più stringenti di quelle disposte da Biden (una tra tutte l'aumento delle risorse e degli agenti della Border Patrol) ma accusa addirittura Trump di “non essere serio quando parla di sicurezza delle frontiere”. E soprattutto non c'entra nulla la democrazia. Specialmente in un paese – pomposamente definito “la più grande democrazia del mondo” – dove vige un rigidissimo sistema bipartitico ultra maggioritario, i partiti sono di fatto comitati d'affari al soldo di finanziatori miliardari, il parlamento conta come il due di coppe con la briscola a denari, non esiste uno straccio di welfare e metà dell'elettorato non va nemmeno a votare. E non da quando c'è Trump ma da decenni, per non dire da sempre.

L'unico vero e innominabile tema al centro delle elezioni presidenziali statunitensi, rectius l'unica reale preoccupazione dell'élite che governa gli USA, è come invertire le sorti di un impero destinato al declino. Una nazione che per quasi un secolo si è creduta intoccabile ed eterna nella sua messianica dimensione di potenza e si è risvegliata in un mondo – da lei stessa plasmato – in cui la propria egemonia economico-militare non è più tale. Condizione che crea inevitabilmente non solo caos esterno ma anche una fortissima instabilità interna, minacciando direttamente (e concretamente) il potere stesso del ceto dominante.

Purtroppo per noi, però, lo scontro in corso tra i pezzi di potere del sistema americano è soltanto di metodo. E qui arriviamo alla seconda domanda, relativa ai riflessi mondiali del Trump bis, che mi induce a credere che i cambiamenti saranno minimi.

L'élite al potere negli USA, infatti, è convinta che l'unica strada per far uscire il paese dall'angolo è la guerra.

E non lo dico perché ho la sfera di cristallo, ma per la ben più banale ragione che il capitalismo si è sempre comportato così difronte alle crisi sistemiche: distruggere parte della produzione e delle forze produttive per produrre nuova ricchezza. Un vecchio sistema, che ci è costato due guerre mondiali. L'unica apparente differenza è solo di approccio, con quello democratico palesemente più aggressivo e scellerato (non a caso i Dem vanno da tempo a braccetto con i Neocon un tempo fedeli a Bush Jr) rispetto a quello forse più “ragionato” dettato dal nuovo corso del Partito Repubblicano.

Ma Trump è “amico” di Putin e vuole risolvere la crisi ucraina, obietterà più di qualcuno. Vero, e sono anche convinto che questo fatto accadrà molto presto. Il problema è che Trump è prima di tutto un americano, diretta espressione del potere economico americano. E il conflitto russo-ucraino è solo la manifestazione più evidente (perché attualmente l'unica possibile) della vera guerra in corso: quella contro la Cina e la sua apparentemente inarrestabile ascesa alla guida di un nuovo ordine internazionale.

A conferma di ciò si possono portare molte prove: dal sostegno incondizionato a Israele, di cui Trump riconobbe Gerusalemme come legittima capitale, ai ripetuti tentativi di destabilizzazione del Venezuela, passando per il tentato golpe contro Evo Morales in quella Bolivia ricchissima di litio che incontrò l'approvazione di Elon Musk, uomo più ricco d'America e principale sponsor della campagna elettorale di Donald.

Beninteso, che il nuovo-vecchio inquilino della Casa Bianca tenti in tutti i modi di pacificare il fronte ucraino, scongiurando il rischio imminente di una escalation atomica, fa certamente tirare un bel sospiro di sollievo. È infatti superfluo osservare che una nuova guerra fredda contro Pechino è sempre meglio di una “calda” contro Mosca. Ma è una soluzione temporanea che si limita a spostare il problema soltanto un po' più in là. Per di più scaricandone il peso, con forza ancora maggiore, sulle spalle dei paesi satelliti: le colonie europee e asiatiche. È in tale ottica, infatti, che va letta l'intenzione non di “sciogliere la NATO”, ma di scaricarne i costi (certamente economici ma perché no anche umani) sui sedicenti “alleati”. Tutt'intorno, dall'Africa all'Asia passando per il Medioriente, il mondo continua infatti vigorosamente a bruciare.

E l'élite americana, più che vestita da pompiere, sembra avere in mano una grande tanica di benzina. Diversamente qualcuno dovrebbe spiegarmi perché entrambi i candidati alla vice-presidenza – il veterano dei marines James Vance e il sergente maggiore Tim Waltz, 25 anni di onorato servizio tra cui l'operazione Enduring Freedom in Afghanistan – siano diretta espressione del ceto militare.
In conclusione c'è quindi davvero poco da festeggiare, men che meno da stare tranquilli. Non a caso dalla Russia filtrano analisi estremamente lucide degli eventi di queste ore le quali, con disincantato e malcelato realismo, ammettono che poi, al netto dei distinguo e delle differenze, nella sostanza rischia di non cambiare quasi niente. Eppure i russi sarebbero i primi diretti interessati a beneficiare di questa “svolta” storica ad oggi certamente auspicabile ma ancora soltanto presunta.
Forse, a differenza di altri, non hanno perso l'attitudine a problematizzare adeguatamente vicende internazionali di tale rilevanza.

Oppure, ma questo non esclude quanto appena detto, hanno ben chiaro che le scosse telluriche prodotte dalla prospettiva di affermazione di un nuovo ordine internazionale innescano dinamiche automatiche, quasi “naturali”, totalmente sottratte al potere dei singoli.

La recente tendenza del capitalismo occidentale a trasformarsi (ovviamente in via temporanea) in economia di guerra è un fatto talmente lampante che non abbisogna di ulteriori dimostrazioni, e non sono eventi da cui si torna indietro tanto facilmente.
Per tale ragione, ma con giusto un briciolo di ottimismo in più, serve continuare a percorrere il difficile sentiero della pace, forse oggi ancor più insidioso perché meno lineare e maggiormente contraddittorio, non arretrando di un millimetro dalla critica alla guerra e ai suoi burattinai. Siano essi volgari bombardatori seriali color arcobaleno, abili affabulatori o sfacciati demagoghi.
Le guerre infatti non le fermano i presidenti, men che meno i sovrani di aristocrazie imperiali in declino, le guerre le fermano i popoli. Altrimenti le subiscono.

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