di Antonio Di Siena
Prima li hanno assorbiti (Vladimiro Giacché direbbe “annessi”) all’interno di un sistema economico totalmente diverso che alle tutele diffuse di stampo socialista preferisce l’ipercompetizione tra individui. Poi li hanno impoveriti a colpi di privatizzazioni massicce e, in nome del mercantilismo, ne hanno favorito o l’emigrazione verso ovest o l’emarginazione rispetto ai tedeschi di serie A. Infine, grazie a politiche deupaperative del lavoro e al contestuale liberismo migratorio privo di qualunque sostenibilità, hanno soffiato sul fuoco della guerra tra poveri attizzando i loro sentimenti più deteriori. Da ultimo, appoggiando politiche estere belliciste completamente contrarie agli interessi nazionali hanno posto le basi affinché l’enorme vantaggio economico guadagnato dalla Germania negli ultimi 30 anni (in cinico danno dei paesi del sud Europa) si sbriciolasse irrimediabilmente in pochi mesi.
Come risultato si ritrovano a convivere con milioni di cittadini impoveriti e incazzati che, in assenza di qualunque proposta di sinistra che non sia anche liberal capitalistica, votano (convintamente o meno poco importa) la destra estrema.
E fingono stupore e indignazione. Ma l’inganno più pericoloso è proprio in quest’ultimo passaggio. Una élite che ha dimostrato per anni di saper efficacemente pianificare (con scientifico anticipo) tutto ciò che oggi divide la società come fosse un’insormontabile linea di faglia non può essere popolata di inetti, improvvisatori e sprovveduti. Il capitalismo occidentale è in crisi profondissima, perché scosso da guerre economiche e militari che difficilmente potrà vincere. L’unica soluzione - almeno nell’immediato - alla sua propria conservazione è auto limitarsi, arroccandosi in uno spazio trincerato (l’Occidente non più delocalizzatore) in attesa di capire come eventualmente venirne nuovamente fuori. Ovvero come tornare egemone.
Una sfida difficilissima da portare avanti (e da vincere) perché il capitalismo occidentale è sostanzialmente ostaggio del proprio stesso modello. Negli ultimi decenni, infatti (ma qualcuno direbbe anche da prima), ha infatti prosperato grazie a manodopera e materie prime a bassissimo costo, entrambe acquisite con i più classici strumenti imperialistici: la guerra e il lavoro semischiavile. Come fare ora che i paesi che le fornivano a flusso continuo si stanno coalizzando contro l’Occidente stesso? Ovviamente la ricetta è sempre la stessa: attraverso la guerra e il lavoro semischiavile, ma stavolta da reperire altrove, giocoforza internamente. Spingere però le nuove generazioni - cresciute con l’idea di un mondo senza confini e in cui il lavoro era stato epurato dalla fatica - ad accettare una tale “controriforma” è qualcosa che “democraticamente” è quasi impossibile da attuare. Ed ecco la necessità di un giro di vite - da realizzare gattopardescamente - sacrificando la parvenza, l’esteriorità democratica (perché questo è sempre stata la democrazia liberale che, grazie al “riformismo” ha tumulato le democrazie socialdemocratiche) affinché possano sopravvivere i gruppi di potere. Certo, la storia non vive di automatismi.
Ma qualcosa di molto simile e già successo, pressappoco un secolo fa. E oggi come ieri la sinistra si concentra ottusamente sul pericolo visibile e incombente, l’estrema destra che avanza, senza preoccuparsi minimamente della mano che l’ha liberato. Ma d’altronde, pretendere di spiegare a un branco di fanatici semicolti che i fascismi non sono mai la causa ma sempre l’effetto è un po’ come tentare di far capire a un sasso che la febbre è sempre e solo il sintomo e mai la malattia.
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