VIRNO, FANON E VIRNO ANCORA: ANTIDOTO ALLA PSEUDO-MOLTITUDINE

di Pasquale Liguori

Il 7 novembre è morto Paolo Virno. Ho iniziato a leggerlo da studente, con i suoi editoriali sul Manifesto. Negli anni ho inseguito, con fatica, le pagine più ostiche dei suoi libri. È un percorso da lettore, non da addetto ai lavori. Non so se agli amici e ai custodi della sua opera piacerà che un lettore qualunque lo evochi, magari risultando irriverente. Ma a me interessa riportare una sua intuizione dentro il presente, farle provocare attrito con ciò che accade. Credo che questa vitalità discreta, più che la devozione, gli sarebbe piaciuta.

Maggio 1990. Al salone del libro di Torino si tiene una conferenza sull'«identità culturale europea». Intellettuali (Vattimo, Derrida) discutono la crisi di quell'identità. Notano che è un «cumulo di paradossi», un territorio di «non più», un concetto «estenuato fino al collasso». È l'élite culturale europea che mette in scena un dibattito su sé stessa, ma lo fa solo per certificare la propria impotenza, la propria “dissoluzione”.

Paolo Virno scrive a riguardo un editoriale sul Manifesto, lo si può trovare nella bella raccolta “Negli anni del nostro scontento” edita da DeriveApprodi. La sua diagnosi è spietata: quel dibattito accademico è vacuo. E lo è perché ignora la lezione che, trent'anni prima, Frantz Fanon aveva imposto al mondo: "abbandoniamo questa Europa".

Per Virno, l'intuizione di Fanon non era una semplice rivendicazione anticolonialista. Era una rottura metodologica. Fanon non intendeva rampognare l'Europa per aver tradito i propri "ideali universalistici" (il Diritto, l'Uomo, la Cultura); aveva attaccato quegli stessi ideali, smascherandoli come linguaggio del dominio.

La vera sorpresa, notava Virno, era che questa "via d'abbandono" era stata seguita non solo nel Terzo Mondo, ma dentro le metropoli: dagli operai della Volkswagen "estranei all'idea di cittadinanza", dai punk, dai movimenti femministi. Questa era la moltitudine reale: un insieme di singolarità che, nel loro conflitto, rifiutavano l'identità universale e astratta imposta dall'alto.

Sono passati più di trent'anni. La diagnosi di Virno si è brutalmente attualizzata. La conferenza di Torino non è più un evento isolato; è diventato il palcoscenico permanente dei nostri feed. Il "linguaggio universale" in crisi non è più solo l'"identità europea", ma è la sua evoluzione: il lessico del "diritto internazionale", della "solidarietà" performativa.

E la "pseudo-moltitudine" contemporanea — di questo si tratta, anche se i suoi fautori la battezzano “moltitudine” — ha tragicamente scelto da che parte stare. Non ha la stessa genealogia di rottura di Fanon e degli operai della Volkswagen. Pratica un virtuosismo senza opera: un'attività che si esaurisce nella sua stessa visibilità, senza istituire nulla.

Si tratta del virtuosismo della flottiglia umanitaria che si consuma nella propria rappresentazione mediatica; dei sudari appesi: un'estetica del dolore che produce emozione e non organizzazione, compassione e non conflitto; delle piazze acefale, convocate da risibili "campi larghi", dove la molteplicità non è potenza ma solo sommatoria di impotenze, neutralizzate in un consenso effimero; del sindaco-miracolo rosso a Wall Street, la cui elezione diventa un rito di assoluzione collettiva; dell'appello alla "figura giusta" nell'istituzione giusta. E così a madrina della massa viene elevata la relatrice speciale la cui funzione rimane una petizione fatta dall'interno della macchina imperiale.

Sono tutti riflessi di “opposizioni” inscritte nel sistema. Non sono la rottura dal sistema, ma la critica del sistema fatta con il linguaggio del sistema.

Questa pseudo-moltitudine ha dimenticato, meglio, non conosce la lezione di Fanon. Invece di "abbandonare" l'universale ipocrita, vi si aggrappa disperatamente. Invoca i tribunali internazionali, usando il "linguaggio dei vinti" sperando che il vincitore riconosca l'ingiustizia. È la perfetta trappola dell'impotenza.

È qui che occorre ritornare all’editoriale di Virno, sottraendolo a semplificazioni e ricordando la lezione radicale che aveva colto nel 1990.

La pseudo-moltitudine agisce il General Intellect alla stregua di un terreno neutro, uno strumento pacificato. Ma Virno, tramite Fanon, ci aveva avvertito: non lo è. Laddove Virno (in Grammatica della moltitudine) vede il linguaggio come comune e come potenza di cooperazione, Fanon (in Pelle nera, maschere bianche) lo rivela come ferita e come territorio colonizzato. Se il linguaggio è la "lingua del padrone" (il Diritto Internazionale, il lessico dell’innocua "solidarietà"), allora il General Intellect non è una prateria condivisa, ma il primo campo di battaglia.

Ne consegue la tesi politica centrale: il comune non è un'origine da cui partire, ma una destinazione da conquistare. Non è un dato da gestire, ma un riscatto da ottenere.

La "violenza" di Fanon non è (solo) la lotta armata. È l'atto istituente che spezza la logica del dominio. È il momento in cui la parola torna corpo e smette di essere petizione per farsi atto.

Il comune non precede la rottura; ne è il risultato. È ciò che si fonda dopo la violenza necessaria di aver "abbandonato l'Europa" (ieri), di aver abbandonato il "diritto internazionale" e la sua sintassi spettacolare (oggi) o, più esplicitamente, di incarnare una resistenza come quella palestinese.

La vera moltitudine non è quella vista all’opera che appende sudari e attende sentenze. È quella che sostituisce la lingua della petizione con la materia dell'organizzazione.

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