Intervista al Prof. Paolo Desogus: "Dobbiamo sconfiggere l'auto-razzismo italiano"

Intervista al Prof. Paolo Desogus: "Dobbiamo sconfiggere l'auto-razzismo italiano"

“Il mix di militarizzazione della società e spoliticizzazione dell’azione politica mediante i tecnici può allora essere fatale.”

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Come AntiDiplomatico è motivo di grande orgoglio poter offrire ai nostri lettori le riflessioni di Paolo Desogus, professore associato di letteratura italiana contemporanea alla Sorbonne Université, autore di Laboratorio Pasolini. Teoria del segno e del cinema per Quodlibet.

La qualità dei suoi contributi è particolarmente apprezzata in questa fase di smarrimento in cui la figura dell’intellettuale è oppressa dal dominio del pensiero unico, come sottolineava all’AntiDiplomatico Carlo Freccero in una recente intervista. Per il Prof. Desogus, per questo, “bisogna tornare a rileggere Dante, Machiavelli, Leopardi, Manzoni, Gramsci e Pasolini. “La nostra è una delle storie letterarie più politicizzate d’Occidente, in cui il tema della nazione è stato trattato in lungo e in largo attraverso formule che solo dopo un’operazione mistificante potevano essere ridotte a beceri schemi nazionalistici.”
 
“Il mix di militarizzazione della società e spoliticizzazione dell’azione politica mediante i tecnici può allora essere fatale," prosegue Desogus nell’intervista che gli abbiamo rivolto, commentando i rischi di una ricostruzione legata alla Commissione Colao. Ma per avere quello scatto di orgoglio che il paese ebbe dopo il secondo conflitto mondiale per il Prof. Desogus è necessario sconfiggere l’auto-razzismo che ci pervade da troppo tempo. “Naturalmente dobbiamo anche sconfiggere l’autorazzismo italiano. Viviamo una condizione quasi unica tra i paesi occidentali. Siamo uno dei pochissimi paesi che esercita su di sé quello che Edward Said chiamava “orientalismo”.

 
L’Intervista

 
Professore, per descrivere la situazione attuale si è scelto un linguaggio bellico. “Siamo in guerra” sentiamo ripetere spesso. Però dopo il secondo conflitto mondiale la ricostruzione è stata affidata ad un’assemblea costituente che ha riunito tutte le migliori energie politiche, culturali e sociali del paese. Al contrario, in questo caso, la ricostruzione è stata affidata alla oscura Commissione Colao che assomiglia sinistramente ad un nuovo governo tecnico (ombra). Siamo in guerra ma gli strumenti alla fine sono sempre gli stessi?
 
Si fa spesso uso del linguaggio bellico. Nel caso dell’attuale crisi sanitaria mi sembra però del tutto gratuito. Chi sarebbe il nemico? Il virus? Bisogna fare molta attenzione, perché non ci vuole molto a trasformare in nemici anche tutti i contagiati e insieme a loro tutti quelli che esprimono idee diverse da quelle governative. Qualcosa di pericoloso è accaduto in Germania ed è stato denunciato anche dal vostro sito. Parlare di guerra come ha fatto Macron in Francia o come si sente dire anche in Italia è un modo per militarizzare la società e renderla sospettosa del prossimo. In chiunque si può manifestare la malattia. Chiunque è allora potenzialmente un nemico. In questa fase occorre invece buon senso e una politica all’altezza. Per questo motivo trovo alquanto discutibile la scelta di Colao alla guida della commissione per la ricostruzione. Ancora una volta si ricorre a una figura che sta al di fuori della politica e che riveste la funzione di tecnico. Sia chiaro, abbiamo indubbiamente bisogno di tecnici, di persone capaci e preparate, ma dobbiamo rifiutare con forza l’ideologia della neutralità della tecnica. Come abbiamo visto nel 2011 questa ideologia serve a mascherare qualcosa che non è affatto tecnico e neutrale, ma è terribilmente politico e rifiuta le normali prassi democratiche. Il mix di militarizzazione della società e spoliticizzazione dell’azione politica mediante i tecnici può allora essere fatale.

 
Recentemente ha attaccato l’atteggiamento di chi sta facendo pressione perché il governo italiano accetti di attivare il Mes come strumento per prendere a debito liquidità (una parte estremamente marginale di quella che necessita il paese in realtà). Rischiamo di fare la fine della Grecia?
 
Rischiamo senz’altro un nuovo memorandum e dunque un nuovo commissariamento della democrazia come quello vissuto tra il 2011 e il 2013 con il governo Monti. Da quello che sta emergendo è chiaro però che esiste in Italia una coalizione larga di forze politiche che desiderano il MES e che anzi cercano nelle condizionalità del MES la possibilità di sopravvivere e di portare a termine il programma neoliberale di Monti e ancora prima di Monti di Prodi. All’inizio di questa crisi sembrava che la vecchia retorica europeista e ordoliberale stesse entrando in crisi. Stiamo ora assistendo a un ritorno all’ordine. Per l’establishment – che vede uniti Bersani e Berlusconi, Renzi e Zingaretti, Corriere della sera e Repubblica – l’attuale crisi rappresenta una ghiottissima opportunità. Sottoporre a commissariamento l’Italia e tacitare qualsiasi alternativa politica al programma neoliberale è l’occasione per procedere con le privatizzazioni delle industrie di stato e con una nuova stretta ai diritti dei lavoratori. Purtroppo, le classi dirigenti italiane non amano il paese e non perdono occasione per sfruttarlo e trarne vantaggi. Questa nuova coalizione in particolare è famelica, predatoria, e nonostante i conflitti del passato è ora capace di unirsi per tornare al potere. Prima o poi dovremo deciderci a ribaltare la vecchia massima di D’Azeglio: “fatti gli italiani, dobbiamo ora fare (o comunque rifare) le sue classi dirigenti”.
 

101 economisti in una lettera pubblicata da Micromega hanno incitato il governo a non “firmare l’accordo” partorito dall’Eurogruppo e a “fare da soli” in caso di muro di Germania e Olanda persistente. Per fare da soli non crede che il primo passo sia sconfiggere quell’auto-razzismo che ci hanno inculcato negli ultimi trent’anni?
 
Condivido integralmente la lettera dei 101 economisti e credo che la prospettiva di “fare da soli” debba essere considerata valida, anche come base per la trattativa con l’UE. Naturalmente dobbiamo anche sconfiggere l’autorazzismo italiano. Viviamo una condizione quasi unica tra i paesi occidentali. Siamo uno dei pochissimi paesi che esercita su di sé quello che Edward Said chiamava “orientalismo”. L’effetto di questo fenomeno è quello di aver introdotto nel paese la mentalità del popolo colonizzato incapace di educare se stesso all’arte di governo. Il nostro paese sarebbe abitato da una popolazione dai costumi pittoreschi, che sa stare a tavola, veste bene, ma che negli affari politici necessita del vincolo esterno e della guida dei paesi seri e maturi, come Francia e Germania, per non cadere nella barbarie. Ora, le origini di questa forma di autorazzismo sono assai complesse, perché in fondo la tradizione liberale, a cui si richiamano spesso gli intellettuali che esaltano il vincolo esterno, aveva un orientamento nazionale molto forte, ricco di nomi prestigiosi, come Manzoni, Cavour, Croce. Credo però che il nostro paese non sia riuscito, o comunque non sia del tutto riuscito, a risolvere quel problema sollevato da Gramsci nei Quaderni e cioè la difficoltà a far coincidere nazione e popolo. Certo, è sbagliato dire che l’Italia sia una nazione incompiuta: la Resistenza, la Costituente e la nascita dei partiti di massa hanno indubbiamente rappresentato un momento di maturità, che ha permesso al paese di accorciare quella separazione tra nazione e popolo individuata da Gramsci. E questo, ricordiamocelo, nonostante le terribili pulsioni eversive della Guerra fredda. Negli ultimi trent’anni è però cambiato qualcosa, si è verificato un arretramento. Le principali culture che hanno fatto dell’Italia un paese moderno, quella cattolica e quella socialcomunista, sono state travolte. Democristiani e socialisti dagli scandali. Diverso è il caso dei comunisti. Gli eredi del Pci – che a proposito di autorazzismo non sono secondi a nessuno – hanno rinnegato completamente la loro cultura, finendo per aderire al pensiero neoliberale e per far propria l’ideologia del vincolo esterno. In alcuni di loro l’europeismo è così forte che si direbbe che abbiano sostituito il mito dell’Urss con quello dell’UE. Vengo da quella cultura e credo di conoscerla bene. Abbiamo sprecato una grande occasione, buttando a mare indiscriminatamente quanto era stato fatto dal dopoguerra. Con la seconda Repubblica l’idea di nazione uscita dalla Resistenza e disegnata dalla Costituzione è stata sostituita con l’idea che l’Italia si sarebbe dovuta dissolvere negli Stati uniti d’Europa.
 

In un suo recente discorso l’ex vicepresidente della Bolivia, Alvaro García Linera, ha dichiarato: «Siamo entrati in un tempo paradossale tipico di una società mondiale in transizione. Tempi di destabilizzazione generalizzata in cui gli orizzonti condivisi si diluiscono e nessuno sa se ciò che arriverà domani sarà la ripetizione di adesso o un nuovo ordine sociale più preoccupato del benessere delle persone… o l’abisso». Cosa ci aspetta dopo la pandemia?

Non credo che assisteremo a una trasformazione uguale in tutto il mondo. Dentro l’Unione Europea, ad esempio, sono fortissime le pressioni affinché tutto resti come prima. Lo status quo, cioè l’attuale gerarchia di stati in competizione secondo le regole dell’ordoliberismo tedesco, è la condizione su cui puntano molti paesi. Ho molti dubbi che persino in Francia, da cui è partita la proposta dei recovery bond, vi sia un reale desiderio di creare gli Stati uniti d’Europa. Questa prospettiva storica ha avuto modo di diffondersi solo in Italia, il paese che ora rischia più di tutti di regredire economicamente e democraticamente. Nel nostro paese manca del tutto un’idea di progresso alternativa a quello neoliberale. Sebbene ci troviamo in un contesto di crescente critica all’UE e alle politiche dell’austerity, molti oppositori restano intrappolati nell’immaginario neoliberale. Faccio un esempio: avremmo bisogno di ricostruire le organizzazioni politiche di lotta – sindacati e partiti – ma questi istituti che nella seconda metà del Novecento hanno rappresentato un baluardo della democrazia e del progresso sociale sono percepiti come vecchi, inutili e persino autoritari. Le stesse culture che si dicono progressiste sanno solo promuovere l’autoattivazione molecolare dal basso, l’auto organizzazione, i beni comuni. Anche nei documenti politici della sinistra radicale, in cui spesso si leggono critiche durissime al neoliberismo, la verticalità della politica è vissuta con profondo disagio, come un qualche cosa che prefigura addirittura il fascismo. Eppure l’abbandono della mediazione partitica e sindacale è del tutto coerente con il pensiero oggi dominante, che esalta la disintermediazione e promuove il cittadino legislatore e imprenditore di sé stesso. Ci troviamo dunque in una paradossale condizione di opposizione al neoliberismo, nel quadro di un immaginario neoliberale.  
 

Siamo di fronte alle barbarie vista l’imminente crisi economica già percettibile. Le sanità devastate dall’austerità hanno mostrato in Occidente il totale fallimento del capitalismo neoliberista. Gli alleati europei non hanno praticamente mosso un dito per aiutare l’Italia colpita con particolare virulenza dall’epidemia. Intanto la Cina ha risposto in maniera tempestiva ed efficiente all’epidemia e ha provveduto a fornire all’Italia materiale sanitario e medici; Cuba invia due brigate mediche nel nord Italia. Possiamo dire che il solidarismo socialista batte l’egoismo capitalista?

La barbarie è in atto da molti anni. Non da oggi. In questa fase è solo più visibile perché la crisi sottopone la società a forti pressioni. Ricordiamoci che sino a poco tempo fa i lavoratori italiani potevano essere pagati con i voucher: quella era barbarie. Sono inoltre barbarie gli stipendi da fame degli italiani e i compensi enormi dei gruppi dirigenti. È barbarie la sempre crescente differenza tra nord e sud in Italia. È barbarie l’aziendalizzazione della scuola e dell’università. È barbarie la trasformazione della cultura in oggetto di consumo per turisti. Per quanto poi riguarda la sanità pubblica italiana, anni e anni di tagli l’hanno portata ai minimi termini. E anche quello è un segno di barbarie. Detto questo non mi aspettavo però l’aiuto degli altri paesi europei. L’UE non è altro che un’istituzione che svolge il ruolo di garante della competizione tra stati nazionali. I suoi trattati non hanno mai contemplato una solidarietà reale. Permettetemi però di dire una cosa: se il progetto dell’UE non è riuscito, questo è dovuto proprio alla sua natura intimamente capitalistica. La base culturale per una vera unione esisteva ed esiste ancora. Solo in una prospettiva socialista – prospettiva negata dai Trattati – è però possibile metterla a frutto per costruire un’unione solidale. Questo è anche il motivo per cui se non mi ha sorpreso l’egoismo dei nostri partner, non mi sono nemmeno stupito degli aiuti da Cuba e dalla Cina.
 

Assistiamo e assisteremo o una rivalutazione generale dello Stato, sia nella sua funzione social-protettiva che in quella economica finanziaria. L’università pubblica è parte dello Stato, una delle sue istituzioni più importanti possiamo affermare. Quale dev’essere il suo ruolo nella società post-pandemia? Quanto è importante, inoltre, anche il ruolo degli intellettuali nella costruzione di una nuova consapevolezza nel popolo italiano?

Mi auguro che gli intellettuali recuperino una funzione politica importante. In parte la svolgono. Da studioso di letteratura voglio augurarmi che si ritorni al meglio della nostra tradizione. Siamo pur sempre il paese di Dante, Machiavelli, Leopardi, Manzoni, Gramsci e Pasolini. La nostra è una delle storie letterarie più politicizzate d’Occidente, in cui il tema della nazione è stato trattato in lungo e in largo attraverso formule che solo dopo un’operazione mistificante potevano essere ridotte a beceri schemi nazionalistici. In ambito umanistico mi capita tuttavia di assistere a conferenze o di leggere saggi che non solo non danno alcuna importanza al tema della nazione, ma che portano avanti discussioni che invece esaltano forme di eversione rizomatica e delle moltitudini, frutto di teorie critiche autoreferenziali e del tutto separate dalla realtà. Naturalmente non è così dappertutto. Questo tipo di cultura pseudo radicale è in forte declino. In questa fase occorre però metterla completamente da parte perché senza l’apporto della cultura e delle nostre tradizioni letterarie sarà difficile immaginare una civiltà nuova e alternativa a quella neoliberale. Ricordiamoci che nei Quaderni del carcere Gramsci si dedica al tema del nazionale-popolare soprattutto nei quaderni 21 e 23 sulla letteratura e sulla critica letteraria. Gramsci era infatti consapevole che non bastava distruggere il mondo attuale. Una forza è veramente rivoluzionaria e popolare se è anche portatrice di una nuova idea di civiltà presente in quel passato di cui riusciamo ad essere eredi. Come recitava Pasolini “Io sono una forza del passato”.
 

L’Italia ha bisogno di fondi ingenti per affrontare la crisi sanitaria e quella economica che provocherà il blocco delle attività decretato per arginare i contagi I guardiani dell’austerità, Olanda e Germania in testa, si oppongono alle richieste di Roma. Dell’emissione dei cosiddetti coronabond a ogni forma di mutualizzazione del debito. Nonostante ciò in Italia si ragiona per fazioni e non nell’ottica dell’interesse del paese. Qual è a suo avviso il motivo di tale miopia politica per non dire malafede?

In parte credo di aver già risposto a questa domanda. Non abbiamo delle classi dirigenti all’altezza, fedeli allo stato. Non solo, ci siamo posti poco il problema della loro formazione. Chi le produce oggi? Chi si incarica di educare l’educatore e formare il personale politico italiano? Un tempo erano i partiti. DC, PCI e PSI non erano solo luoghi di aggregazione politica, ma anche di formazione. Ogni partito aveva i suoi quotidiani, le sue riviste specialistiche, i suoi centri studi, i suoi intellettuali di riferimento. I partiti attuali non hanno nulla di tutto questo, sono solo dei cartelli elettorali frequentati per lo più da chi aspira ad andare in televisione. A questo proposito vi devo confessare che, inizialmente, sono stato mosso da una profonda ostilità verso i 5 stelle, soprattutto perché si sono intestati battaglie che io trovo sbagliatissime, come l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e il taglio dei parlamentari. Con quelle battaglie i 5 stelle hanno combattuto per il loro stesso nemico. Credevano di colpire i vecchi apparati, in realtà hanno colpito quelle istituzioni che il pensiero neoliberale considera come i principali ostacoli alla disintermediazione. Al contrario abbiamo bisogno di più politica, di più dirigenti politici, per educare i quali è necessario anche il finanziamento pubblico. Occorrono allora luoghi di riflessione capaci di coltivare intellettuali, specialisti e uomini di fiducia dentro i partiti. Senza queste figure le attuali formazioni politiche sono costrette ad attingere dall’esterno: quando va bene dalle università, ma quando va male dalle fondazioni e della agenzie finanziate dai grandi gruppi bancari e dalle multinazionali, come con Colao. In questa legislatura i 5 stelle mi hanno tuttavia sorpreso. Nonostante tutto stanno imparando ad interpretare il momento storico con più dinamicità delle altre formazioni. Non mi stupirei, e anzi sarebbe auspicabile, se eliminassero del tutto la vecchia retorica antipolitica per diventare, contro tutti gli altri cartelli elettorali, il luogo di un’ampia riflessione culturale autonoma. Staremo a vedere. Qualcosa in quella direzione potrebbe avverarsi. Anche perché senza questa maturità politica i 5 stelle sono destinati ad entrare nel giogo delle altre forze politiche e alla lunga a estinguersi.
 

Recentemente Professore ha fatto un appello pubblico affinché la palese dimostrazione di inefficacia e inutilità dell’Unione Europea rispetto la portata immane della crisi dell’Italia potesse essere lo slancio per un nuovo processo di unione delle forze di sinistra che proprio sull’Ue si erano spaccate in passato. Come potrebbe avvenire?
 
Devo dire che inizialmente ho peccato di ottimismo. Mi hanno incoraggiato le posizioni di molti intellettuali di sinistra, gli interventi di Mattarella, ma soprattutto le reazioni dei liberali, di cui non mi aspettavo i toni critici contro l’UE e contro la Germania. Queste critiche sono ormai già rientrate. Dopo i primi scossoni le residue forze europeiste si stanno riorganizzando e faranno di tutto per riproporre le ricette dell’austerity e del vincolo esterno da cui, in fin dei conti, deriva la loro stessa esistenza. Per l’area prodiana, i berlusconiani, i residui di renzismo insieme a quelle singole personalità come Bersani e Bonino non c’è alcuna chance di tornare al governo in altro modo. Sul fronte europeo faranno dunque di tutto per presentarsi come le uniche forze capaci di garantire in Italia l’applicazione dei trattati e di un eventuale nuovo memorandum. Mentre sul fronte elettorale, come abbiamo già visto in passato, agiteranno la minaccia di Salvini e Meloni per convincere gli italiani che tutto sommato loro sono il meno peggio. Non so sino a che punto potranno resistere con questo schema, che in fondo non ha fatto altro che portare consensi proprio alla Lega e a Fratelli d’Italia. Vedremo. Temo comunque che lo stesso governo Conte sia a rischio. Le crepe con il PD sono ormai evidenti. Lo erano del resto già da prima dell’inizio della crisi sanitaria.
 

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