“Jihad e Imperialismo”: un saggio monumentale per capire la questione palestinese

“Jihad e Imperialismo”: un saggio monumentale per capire la questione palestinese

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di Giulia Bertotto 

Maurizio Brignoli si occupa da diversi anni dei rapporti tra l’imperialismo e le principali religioni. Ha pubblicato “Breve storia dell’imperialismo” (La città del Sole, 2010). Il suo ultimo saggio si intitola “Jihad e Imperialismo. Dalle origini dell’islamismo ad Al-Qaida e Isis: quale ruolo nel grande scontro antimperialistico?” appena uscito per LAD EDIZIONI.





Un’opera imponente e indispensabile per capire il rapporto politico, economico, quindi anche sociale e culturale tra Occidente e Oriente, tra mondo cattolico e laico e il complesso universo islamico. Nell’introduzione scrive: “Buona parte delle analisi che hanno tentato di indagare l’Isis, e precedentemente al-Qaida et similia, consiste nel fatto che venga posta come centrale la dimensione religiosa, con tutto un conseguente correlato di riferimenti che rende più agevole inserire il fenomeno all’interno dello “scontro di civiltà”, concetto che, a sua volta, permette di offuscare la comprensione delle origini e degli scopi dell’oggetto di indagine”. Il jihadismo ha origini e scopi molto più terreni, poiché “la realtà sottostante al discorso pseudoreligioso e di scontro di civiltà è assolutamente materiale e profana. Il sistema capitalistico non ha bisogno di una legittimazione religiosa, soprattutto dal XVIII secolo in poi”.

Abbiamo rivolto al dottor Brignoli un’intervista davvero Antidiplomatica, ponendo anche domande che forse gli avrebbe rivolto un ipotetico lettore di giornali diplomatici.



Dottor Brignoli, iniziamo col definire il termine a noi meno familiare del discorso, ossia il Jihad da noi occidentali considerato solo nel suo aspetto esteriore, la guerra santa contro gli infedeli per arrivare all’Umma, mentre solitamente -soprattutto a livello mediatico- trascuriamo l’aspetto interiore e mistico di lotta per approdare alla vera fede.
Nel suo saggio afferma che “Non è la religione la questione principale da prendere in esame per spiegare le cause del fenomeno Isis, al-Qaida, ecc., bensì l’imperialismo nella sua dimensione economica, politica, militare e ideologica”. Per citare Marx siamo di fronte a un caso di falsa coscienza volto a occultare i veri aspetti geopolitici e finanziari che muovono le fila dei rapporti internazionali?

Spesso quando si affronta la questione dell’islamismo si sposta l’attenzione sul cosiddetto “scontro di civiltà”, che dal punto di vista ideologico presenta grandi vantaggi perché permette di contrapporre l’Occidente ai “barbari”, ma di fatto l’islamismo è un ampio e complesso fenomeno moderno che si sviluppa tra XVIII e XX secolo. Al suo interno troviamo tradizionalisti che hanno usato la religione per combattere il colonialismo nel XIX secolo, i “papi” dell’Islam cioè i sauditi, i Fratelli Musulmani, principale corrente di islamizzazione dei paesi arabi, e islamonazionalisti come Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina. C’è poi il jihadismo, che ha svolto spesso un’utile funzione per l’imperialismo occidentale, dai tempi dell’Afghanistan fino all’Isis. Ma ripeto, si tratta di un fenomeno moderno, figlio soprattutto della strategia del caos di matrice statunitense, per creare disordine e divisione nei paesi musulmani situati in zone cruciali per il controllo delle risorse energetiche, dei corridoi commerciali e delle aree valutarie.


Una sorta di balcanizzazione a sfondo teologico. Lei afferma che l’islamismo sia un fenomeno moderno, ma allora le crociate?

Per quanto riguarda il termine “balcanizzazione” è stato utilizzato da Bernard Lewis, e a questo pensatore dobbiamo anche l’espressione “Arco della crisi”, cioè il modo di utilizzare tutte quelle formazioni che nell’Unione Sovietica potevano essere elemento di indebolimento dell’URSS stessa: finanziare gruppi di mujaheddin ultraconservatori e oscurantisti, non dissimili dai talebani afgani, per fomentare la destabilizzazione socio-politica e quindi economica. Anche all’epoca delle crociate vi erano molti più interessi economici e commerciali che questioni teologiche in ballo, anche se in passato, almeno fino al Settecento, la dimensione religiosa, politica ed economica si presentano dal punto di vista ideale come unità.


Ma così non rischiamo di deresponsabilizzare questi movimenti più o meno violenti? Insomma se è sempre colpa dell’Occidente non finiamo per appiattire paradossalmente il ruolo di queste organizzazioni?

Dobbiamo esaminare la situazione economica: nel mondo arabo troviamo processi di indipendenza nazionale, che si sviluppano fra le due guerre mondiali e nel secondo dopoguerra, guidati da formazioni laiche, espressione di una borghesia nazionale che si contrappone agli interessi dell’imperialismo, che daranno vita a un capitalismo di stato. Questo sistema è andato in crisi con l’esplodere dell’ultima grande crisi da sovrapproduzione tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Una crisi che andava a colpire le popolazioni arabe con le loro differenze di classe. Da un lato il nazionalismo si trasforma in uno strumento di potere di classi che vengono reinserite all’interno del sistema imperialistico col ruolo di borghesie compradore, mentre l’islamismo sviluppa la sua base sociale e la sua egemonia ideologica corporativistica rimanendo organico al processo di evoluzione capitalistica del mondo arabo con una borghesia che utilizza l’islamismo per occupare posti dirigenti e guadagni derivanti dall’amministrazione dello stato. Dall’altra una gioventù impoverita dotata di un’istruzione media, e condannata alla funzione di esercito industriale di riserva senza possibilità di partecipazione politica che trova nelle parole esaltanti e nel messaggio ideale islamista una speranza di rinascita e di rivincita. Ecco, l’islamismo cerca di tenere insieme queste due istanze inconciliabili, ambizioni borghesi e masse di giovani anche poverissimi, che propenderanno per una lotta armata. I grandi capi jihadisti esprimeranno però le aspirazioni di una borghesia araba e di un capitale produttivo (Bin Laden è laureato in ingegneria e in amministrazione aziendale, al-Zawahiri in medicina, al-Baghdadi in giurisprudenza) che non vuole più avere una posizione subordinata agli interessi occidentali gestiti con la complicità delle petromonarchie. Occorre aggiungere che la predisposizione a farsi saltare in aria è una caratteristica (marginale e più diffusa fra chi ha una scarsa conoscenza dell’islam) molto moderna, così come il fanatismo, attribuibile a cause materiali molto più che a aspirazioni soprannaturali. La scelta sul piano dell’arbitrio e della coscienza resta sul piano etico e diciamo che non ci compete.

 

Chiaro, non è una posizione giustificativa ma antropologica. Come può, il suo rigoroso e maestoso studio, aiutarci a comprendere ciò che sta accadendo in Palestina?

La questione palestinese ha origine nel dicembre 1947 (anche se si può risalire alla dichiarazione Balfour del 1917), quando inizia la pulizia etnica operata dal gruppo dirigente guidato da Ben Gurion e dalla sinistra sionista e tale progetto non è mai finito, anzi come ha spiegato lo storico israeliano Pappé è un “genocidio incrementale”. Hamas nasce come costola dei Fratelli Musulmani d’Egitto. Inizia con un lavoro di predicazione e soccorso alla popolazione con scuole e aiuti umanitari, cosiddetto corporativismo, aiuti umanitari per anestetizzare la lotta di classe contro l’occupante. Hamas è stato appoggiato da diversi governi sionisti in quanto capace di depotenziare le forme di resistenza. Ma Hamas come ogni movimento politico si impegnerà poi nelle Intifade, trasformandosi in una formazione islamo-nazionalista per l’indipendenza nazionale. L’ANP intanto svolgeva un ruolo di collaborazione con Israele, perché non poteva fare altro e probabilmente neppure lo voleva. Intanto nel 2006 a Gaza, Hamas vinceva le elezioni grazie al ruolo di forza di resistenza all’occupante.


A proposito del consenso verso Hamas. Secondo lei attualmente, dopo il bombardamento di scuole, ospedali, moschee, case gran parte della popolazione sostiene Hamas?

L’appoggio ad Hamas è andato scemando nel corso degli anni, questo accade soprattutto perché è quanto mai difficile governare senza risorse in condizioni disumane, dove arrivano calorie razionate, è impedito l’accesso alla pesca, la disoccupazione raggiunge tassi drammatici, e le incursioni e punizioni collettive sono quasi all’ordine del giorno. La situazione nella Striscia era invivibile, prima o poi questa prigione a cielo aperto sarebbe esplosa.



C’è all’orizzonte un eventuale risveglio panislamico in relazione e reazione al genocidio sulla Striscia di Gaza? Al momento sembra che del popolo palestinese non importi granché alla comunità internazionale, e questo vale anche per alcuni paesi del mondo islamico.

Le petromonarchie, per quanto ora meno subordinate a Washington visto che perseguono i propri interessi anche con Pechino, sono più preoccupate di proteste interne che di intervenire per i palestinesi e non sembrano voler sacrificare i rapporti con Usa e Israele per la causa palestinese. In Occidente alcuni governi sono in difficoltà davanti ai fiumi umani delle proteste, ma non hanno intenzione di recedere da un appoggio incondizionato a Tel Aviv.



L’Egitto ha sempre temuto l’arrivo dei profughi palestinesi e per evitare il flusso di disperati ha stretto anche accordi con Israele.

Se gli israeliani vogliono deportare i gazawi nel deserto del Sinai, l’ultima cosa che vuole Il Cairo, che ha messo fuori legge i Fratelli Musulmani, è ritrovarsi Hamas sul suo territorio, anche se Hamas si è distaccata dalla Fratellanza. I palestinesi adesso possono contare su Hezbollah libanese, il quale però a mio avviso entrerebbe in guerra solo se attaccato. Ricordiamo che in Libano vi sono anche partiti filosionisti come le Falangi libanesi maronite, potrebbe riaccendersi una guerra civile. Il Libano è l’anello debole del cosiddetto “asse della resistenza” e rischia oltretutto di essere il prossimo obiettivo di Israele.

Anche l’Iran interverrebbe nel conflitto se trascinato in esso diciamo così, ma dubito voglia iniziare una guerra con Israele e gran parte del mondo occidentale. I sauditi hanno chiesto di cessare le ostilità e l’Algeria ha proposto di bloccare i rifornimenti energetici ad Israele ma ha ricevuto ferme opposizioni da Eau e Bahrein. L’ultima volta che la Siria, nel 1973, ha provato a riprendersi il Golan, con l’Egitto, Israele ha minacciato l’uso dell’atomica e i siriani non hanno potuto che fare marcia indietro dotandosi dell’ “atomica dei poveri”, le armi chimiche. Un terzo del suo territorio è occupato da forze curde in vece degli Usa, non credo possa occuparsi della Palestina.

Il rischio di un ampliamento del conflitto c’è, ma al momento è difficile dire chi eventualmente interverrà.



Un capitolo del suo saggio si intitola “una Gladio “nazijihadista” in Ucraina”. In che modo il Jihad si manifesta nel cuore d’Europa?

Si tratta di un rapporto avviato alla fine del 2014, il Parlamento di Kiev proponeva di sostenere gli islamisti in Cecenia, in funzione antirussa, i georgiani andavano nella stessa direzione. Un tentativo di replicare il modello dell’operazione Gladio promossa dalla CIA per estirpare i partiti comunisti. Combattenti del jihad si sono uniti al Battaglione Azov e al Settore Destro (Pravyj Sektor), miliziani in Kosovo e poi in Ucraina tra i filonazisti. Sono mercenari con esperienze in eserciti NATO e che sono transitati anche nelle formazioni curde filostatunitensi in Siria. La sinergia è tra formazioni neonaziste e gruppi jihadisti, ad esempio il Battaglione Sheik Mansour che annovera reduci delle guerre cecene.

Per pensare alla pace dobbiamo conoscere come funzionano le guerre, i loro retroscena, lo sfruttamento di ideologie e ideali per ragioni di potere e profitto.


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