Perché la nazionalizzazione dell'ex Ilva è l'unica soluzione

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Perché la nazionalizzazione dell'ex Ilva è l'unica soluzione



di Giorgio Cremaschi

Ora che lo stesso governo Meloni deve prendere atto che la gestione ArcelorMittal dell’ex Ilva è stata un disastro, la nazionalizzazione diventa la sola soluzione concretamente praticabile. Ma è bene non farsi illusioni sul fatto che questo segni un cambiamento nelle scelte di fondo della classe politica e industriale del paese.

Lo stesso governo che ora sarà costretto dai fatti a prendere in mano gli stabilimenti siderurgici di Taranto, della Liguria e del Piemonte, nella sua ultima finanziaria ha messo in conto i proventi di altre privatizzazioni. E un patrimonio fondamentale del paese, la rete della telefonia, è stata appena ceduta ad una multinazionale Usa legata alla Cia.

La stessa nazionalizzazione dell’ex Ilva viene presentata come una misura di emergenza temporanea, in attesa di trovare nuovi soci privati a cui affidarla. E così il disastro continuerà perché la classe dirigente italiana non impara mai nulla.

La scelta di ArcelorMittal era già un destino segnato, tutti sapevano che la multinazionale non aveva alcun interesse a risanare e a far sviluppare un polo siderurgico italiano che avrebbe sconvolto i suoi equilibri mondiali, ma chi già allora sollevava questi dubbi veniva messo a tacere da tutto il palazzo politico e anche dal sindacalismo confederale; mentre solo la Usb e piccole minoranze politiche e sindacali rivendicavano la nazionalizzazione come scelta e non come ripiego di fronte alle catastrofi.

Perché la realtà è che solo l’intervento dello stato, nel quadro di un progetto di pianificazione industriale, potrebbe unire il risanamento ambientale ad un progetto produttivo. Un privato e soprattutto una multinazionale questo non lo farà mai, per i costi e per l’impegno che richiede. Lo si è sempre saputo, ma si è fatto finta di niente riempendosi la bocca del gergo liberista e imprenditoriale che copre il nulla.

Se risaliamo a poco più di trent’anni fa troviamo tutte le cause dell’ attuale distruzione del patrimonio industriale e produttivo del paese. Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso il sistema industriale e finanziario pubblico era uno dei pilastri dell’economia del paese.

Erano a partecipazioni statale la siderurgia, la produzione di metalli non ferrosi, la robotica, le telecomunicazioni, l’elettronica, l’impiantistica, le macchine utensili, la chimica. E poi la produzione ferroviaria, la cantieristica navale, le autostrade, il trasporto aereo e le banche.

Insomma il sistema pubblico era in tutti i settori produttivi ed economici strategici, non solo in quello delle armi, unico settore oggi davvero rimasto in mani pubbliche, però più della Nato che dello Stato italiano.

Eni ed Enel erano gestite come aziende pubbliche che dovevano rispondere alle esigenze produttive del paese, e non come imprese quotate in Borsa che devono prima di tutto obbedire alla speculazione finanziaria, come sono diventate oggi. Allora anche il sistema privato si fondava e veniva sostenuto dal sistema pubblico: Fiat, Olivetti, Pirelli erano grandi imprese private che avevano alle spalle l’Iri.

Come sappiamo, a partire dal 1990, in pochi anni tutto questo sistema è stato smantellato, con la grande privatizzazione e la soppressione dell’Iri, nel nome della superiorità del mercato e perché così “voleva l’Europa”.

Il risultato è stato la scomparsa dell’Italia da interi settori produttivi e la trasformazione dell’industria in un sistema di subfornitura soprattutto per la Germania. Le industrie privatizzate o sono state ridimensionate, o sono sono entrate in crisi, o sono state chiuse. Olivetti prima e Fiat poi sono scomparse, le multinazionali hanno preso quello che restava per saccheggiarlo, mentre l’imprenditoria privata italiana nei suoi pochi interventi ha completamente fallito.

Il liberismo attuato dai governi di centrosinistra e destra ha distrutto la specificità del sistema economico italiano, la sua natura mista tra pubblico e privato, e ha lasciato il deserto. Deserto nel quale ogni tanto spuntava qualche impresa di successo, che permetteva agli ideologi liberisti di gridare alla vittoria del mercato.

Fino al momento in cui i proprietari di quell’impresa la mettevano a realizzo vendendola a qualche multinazionale. Oggi anche La Piadineria è in mano ad un fondo speculativo britannico.

L’Italia è diventata una colonia di subforniture e start up per le multinazionali, e ha potuto continuare a funzionare in questa fascia di mercato solo grazie ai salari più bassi e agli orari più alti dei lavoratori.

Tutte le crisi aziendali sono finite in disastri perché la politica ha sempre operato su questo schema: la proprietà multinazionale chiude nell’impunità, il governo trova una padrone privato che rilevi l’attività, ma che poi fallisce, spesso addirittura prima di cominciare.

Ma lo smantellamento del sistema pubblico non ha solo prodotto la chiusura diretta della fabbriche. Il risultato indiretto e ancora più grave è stata la distruzione delle competenze. Le competenze economico-politiche e gli strumenti istituzionali per realizzare politiche e programmazioni industriali, le capacità manageriali nella gestione delle grandi organizzazioni produttive: tutte queste venivano meno con lo smantellamento delle grandi aziende pubbliche e del sistema di produzione ad esse collegato.

Prima si distruggevano gli strumenti della pianificazione industriale nel nome del libero mercato, poi quando c’era da riparare ai disastri del libero mercato la stessa classe dirigente piangeva di non avere più strumenti adeguati per farlo.

Ora il collasso della privatizzazione dell’Ilva dovrebbe essere l’occasione per ricostruire gli strumenti dell’intervento pubblico nell’economia, le politiche e la pianificazione industriali. Sì, ci vorrebbe una nuova Iri.

Sarebbe necessario perché la crisi siderurgica è solo la punta dell’iceberg di un sistema produttivo complessivamente giunto ad un punto di crisi, crisi che la guerra e l’economia di guerra accentuano. Purtroppo non credo che un governo che ha cancellato l’adesione alla Via delle Seta per obbedire a Biden e che ha fatto della libertà d’impresa il proprio dogma sia capace di definire un progetto industriale per il paese.

Dopo i trent’anni buttati via per colpa della subalternità al mercato di tutti i governi, da Ciampi a Prodi a Berlusconi a tutti i successori, rischiamo di avere la stessa politica ancora più confusa, servile e incompetente. E la tenuta del sistema industriale del paese non è certo infinita. Non abbiamo davanti altri trent’anni per fare disastri.

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