9 maggio, a Kiev e Varsavia si erige il monumento alla stupidità euro-liberale

9 maggio, a Kiev e Varsavia si erige il monumento alla stupidità euro-liberale

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di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

La sbandierata controffensiva ucraina, se pure lancia segnali di esistenza in vita, sotto forma di attentati, sabotaggi, lanci di droni dagli effetti più o meno efficaci, nel suo insieme, per come viene presentata sin dallo scorso novembre dai media europeisti più guerrafondai, come qualcosa di massiccio attacco concentrico di “milioni” di uomini e mezzi, continua tuttavia a esser rinviata. Se finora doveva essere la primavera a sancire l'attacco “fine di Russia”, con l'europeista «sconfitta strategica» di Mosca espressa nelle “democratiche” farneticazioni del capo dell'Intellingence militare golpista, Kirill Budanov, secondo cui la sua banda ha assassinato e assassinerà russi in ogni angolo del pianeta, ecco che ora lo stesso capintesta della junta nazi-golpista, Vladimir Zelenskij, annuncia l'offensiva per la prossima estate, mentre il suo Ministro della guerra, Aleksej Reznikov, dichiara che, nel mondo, l'attesa per la controffensiva ucraina è sopravvalutata.

Nell'attesa, alla vigilia della ricorrenza considerata sacra dai russi, la Festa della Vittoria – che Zelenskij intende abolire, a favore di una fanto-liberale festa dell'Europa – il 9 Maggio, nell'anniversario della firma della capitolazione nazista, le sirene d'allarme aereo sono risuonate in gran parte delle regioni ucraine, attaccate da razzi e artiglierie russe, che non danno segno della carenza di scorte a ovest declamata.

D'altronde, anche ammesso (e difficilmente concesso) che la controffensiva “democratica” possa esser tale da costringere Mosca a venire a patti con le condizioni ukro-atlantiche, per Kiev verrebbe meno, con ciò stesso, la fonte primaria del sostegno militare – ma, soprattutto, economico – con cui il regime golpista sopravvive. Dunque, la continuazione del conflitto è vantaggiosa per il regime majdanista, ma lo è ancor più per tutti i “piazzisti” euro-americani. Lo scorso 6 maggio, Zelenskij lo ha spiattellato sfacciatamente a The Washington Post: «credo che quante più vittorie otteniamo sul campo di battaglia, tante più persone crederanno in noi e, quindi, noi riceveremo maggiore sostegno».

Ma ciò non esclude che, come scrive l'americana Newsweek, Kiev abbia un bisogno «immediato della pace per cercare di ripristinare l'economia», tanto più che la decantata promessa della NATO di sostenere l'Ucraina «tanto, quanto è necessario», è tutto fuor che solida e, nota il settimanale, il conflitto viene finanziato non da un qualche soggetto astratto chiamato NATO, ma dai «contribuenti occidentali, persone reali, i cui redditi e la cui qualità di vita soffrono oggi notevolmente» da tali spese e che sono sempre più stufi di pagare gli armamenti da spedire a Kiev.

È addirittura l'ambasciatore ucraino a Londra, Vadim Pristajko, a metter le mani avanti e si vede costretto ad ammettere che la crisi ucraina ha smesso di interessare gli europei; mentre il vice premier polacco Piotr Glinski dichiara sconsolato che una buona metà degli europei desidererebbe tornare a buoni rapporti con Mosca. Ma, a dispetto di tale sconforto polacco, non è escluso che se il fronte ucraino dovesse presto venir meno, e in attesa di aprire la partita più grossa con la Cina, in Europa il ruolo di Kiev potrebbe esser preso da Varsavia.

Ci sono per l'appunto alcune circostanze, che vanno considerate e che sembrano parlare di una possibile “sostituzione di truppe d'attacco”: non dei famosi reparti ceceni “Akhmat” che avrebbero dovuto sostituire quelli della “Wagner” nella presa di Artëmovsk. No: in scala più estesa, da un po' di tempo gli osservatori russi guardano al possibile passaggio di mano della “questione russa” da Kiev a Varsavia. 

Oggi, i rapporti russo-polacchi paiono aver raggiunto il minimo: se il 9 maggio, nell'anniversario della Vittoria, Varsavia compirà l'ennesimo affronto ai danni dell'ambasciata russa in Polonia, o dell'ambasciatore Sergej Andreev, è possibile che si arrivi alla rottura completa dei rapporti diplomatici. Alla precedente Giornata della Vittoria, a maggio 2022, durante la cerimonia al memoriale dei soldati sovietici morti per la liberazione della Polonia, l'ambasciatore Andreev venne imbrattato di vernice rossa. Due mesi prima, Varsavia aveva parlato dell'assenza di “linee rosse” nei rapporti con Mosca e della necessità di “rompere” con tutto ciò che è russo. Quest'anno, nelle scorse settimane, la polizia polacca, con tanto di tronchesi, ha forzato il cancello e fatto irruzione nella scuola dei figli dei diplomatici russi a Varsavia. Ora, è il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitrij Medvedev, con il consenso di Andreev, a parlare della presa di coscienza sulla necessità di rompere i rapporti con la Polonia.

Sembra proprio, scrive la russa Vzgljad, che la rottura sia inevitabile e sia solo questione di tempo, per quanto, sbotta Dmitrij Bavyrin, cosa si «deve ancora aspettare? Che diano fuoco all'ambasciata? Che multino per l'uso della lingua russa? La richiesta ufficiale di riparazioni per la liberazione della Polonia dai nazisti?». Per non parlare, ovviamente, di tutti monumenti ai soldati dell'Esercito Rosso, abbattuti dalle autorità polacche negli ultimi dieci anni.

Già così, nonostante che Polonia e Russia siano gli unici due paesi che nel secolo scorso più al mondo abbiano sofferto dal terrorismo banderista ucraino, oggi Varsavia, a livello di alte cariche, dichiara che la sconfitta militare della Russia è il senso della propria esistenza, e dà vita a uno speciale comitato governativo, il cui unico compito è escogitare metodi su come danneggiare i russi. Così che, conclude Bavyrin, la rottura delle relazioni con Varsavia potrebbe addirittura servire di ammonimento ad altre capitali messesi sul terreno della russofobia.

Sul tema anche Igor' Ul'janov, su Segodnja.Ru, constata come diversi fattori stiano a indicare che Varsavia si stia preparando a una contrapposizione armata con Mosca: dagli appelli ad alto livello a infliggere una schiacciante sconfitta alla Russia, all'aumento del bilancio militare fino al 4% del PIL, alla costituzione di alcuni distaccamenti militari agli immediati confini con Kaliningrad, da cui, tra l'altro, possono ora entrare in Polonia solo i titolari di doppia cittadinanza che, solitamente, oltre che russa, è anche tedesca, lettone o lituana.

Si attendono inoltre elicotteri “Apache” e carri “Abrams” dagli USA che, secondo il Ministro della difesa Mariusz Blaszczak, sarebbero necessari per la difesa delle cosiddette “porte di Brest” (brama brzeska): l'accesso più diretto sulla traiettoria da Varsavia verso Brest, Minsk, Smolensk e Mosca, il percorso seguito da Napoleone nel 1812 e da Hitler nel 1941. Ancora: in tutto il paese è in atto una campagna per l'addestramento militare volontario e tutti gli uomini, indipendentemente dall'età, sono esortati a recarsi ai distretti militari più vicini per addestrarsi a maneggiare le armi nei fine settimana; si programma poi di portare a trecentomila le forze di Difesa territoriale. Gli italici sabati fascisti prendono la forma polacca dello stimolo ufficiale agli sport di combattimento, come arti marziali miste, boxe, wrestling e ogni settimana, in diverse parti del paese, si svolgono in pompa magna tutti i tipi di campionati delle varie arti marziali.

Ora, per quanto il regime sanfedista di Varsavia sia tra i più reazionari (vi si può esser multati, o arrestati, solo per aver tirato fuori di tasca un fazzoletto russo, “simbolo comunista) e altezzosi d'Europa, è improbabile che i suoi esponenti siano così gonzi da credere che il loro paese non subirebbe una sorte simile a quella ucraina, in caso di conflitto totale con la Russia. Per cui, è pensabile che le loro ambizioni si limitino a un “battibecco” territoriale, per quanto pur sempre pericolosissimo.

E infatti, a parere di Ul'janov, tutti i fatti elencati indicherebbero che la Polonia brama di impossessarsi di Kaliningrad, che la trasformerebbe in leader del mar Baltico, col relativo monopolio dei terminali di gas, e un conflitto della NATO con la Russia in quell'area servirebbe a puntino alle brame di Varsavia. Chiusa la partita ucraina, se ne aprirebbe un'altra.

Insomma: un cretino tira l'altro e tutti e due insieme mettono insieme i mattoni del monumento alla stupidità euro-liberale.

Fabrizio Poggi

Fabrizio Poggi

Ha collaborato con “Novoe Vremja” (“Tempi nuovi”), Radio Mosca, “il manifesto”, “Avvenimenti”, “Liberazione”. Oggi scrive per L’Antidiplomatico, Contropiano e la rivista Nuova Unità.  Autore di "Falsi storici" (L.A.D Gruppo editoriale)

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