Come la Russia soffia sull'inflazione in occidente (con l'aiuto saudita)

Come la Russia soffia sull'inflazione in occidente (con l'aiuto saudita)

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di Giuseppe Masala per l'AntiDiplomatico

Spesso le sanzioni europee si sono dimostrate una tigre di carta non in grado di danneggiare la Russia e in determinati casi si sono dimostrate autolesioniste. Pensiamo per esempio alle sanzioni energetiche che sotto questo aspetto possono essere considerate emblematiche: l'Unione Europea le ha imposte a partire dal 5 dicembre del 2022 per quanto riguarda il petrolio greggio trasportato via mare (dunque escludendo i paesi come l'Ungheria e la Cechia che importano petrolio russo via oleodotto)  e dal 15 febbraio 2023 per quanto riguarda o derivati del petrolio, quali benzina e diesel sempre provenienti dalla Russia. Il risultato paradossale di questi provvedimenti - con il passare dei mesi - si è scoperto che in nessun modo hanno danneggiato il grande impero euroasiatico e che invece hanno danneggiato la stessa Unione Europea. Questo perché un enorme flusso di petrolio si è riversato dalla Russia, anziché in Europa, ai paesi in via di sviluppo (o ex in via di sviluppo) come la Cina, l'India, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti. Con il risultato che questi cinque paesi hanno assorbito gran parte dei flussi via mare prima destinati al Vecchio continente e rappresentano oggi il 70% delle esportazioni di greggio dalla Russia. Una vera e propria rivoluzione copernicana nelle rotte energetiche mondiali.

Il lato più interessante della questione non è però neanche questo: i paesi elencati sopra, che hanno aumentato l'import di energia dalla Russia in maniera così abnorme, hanno anche aumentato le esportazioni di prodotti raffinati verso la coalizione occidentale che ha imposto il price cap (l’Unione europea, il resto del G7 e l’Australia) e il ban all'importazione di petrolio via mare.  Più precisamente le esportazioni di prodotti raffinati dalla Cina ai paesi occidentali sono salite del 94%, quelle dalla Turchia invece del 43%. Anche il piccolo Singapore  ha visto aumentare del 33% il suo export di prodotti raffinati verso occidente e così pure il già ricchissmo di suo Emirati Arabi Uniti che le ha aumentate del 23%. Secondo i calcoli degli economisti il controvalore di questo surplus è aumentato di quasi 20 miliardi di euro. Ancora più rivelatore è il caso dell’India che è diventata la prima esportatrice di petrolio alla coalizione occidentale da quando è stato deciso il price cap. Inutile sottolineare che il subcontinente indiano non è mai stato un esportatore né di energia né di prodotti distillati del petrolio. Altrettanto inutile sottolineare che questi paesi si fanno pagare profumatamente l'intermediazione con un aggravio dei costi per i paesi occidentali e in definitiva per noi consumatori. Aumento dei costi che ovviamente a cascata è significato aumento netto dell'inflazione ad occidente con tutte le gravi conseguenze che giornali e televisioni ci raccontano tutti i giorni.

Ma se fino ad ora le bottigliate sui cabasisi, in pieno stile Tafazzi, l'Occidente se le è date da solo (precisamente a darsele su ordine americano è stata l'Europa, visto che gli statunitensi sono autonomi dal punto di vista energetico), da ora in avanti il gioco potrebbe cambiare. Sarà la Russia a picchiare sui nostri cabasisi con il concorso del suo nuovo alleato di ferro, il Regno Saudita.

Infatti Russia e Arabia Saudita hanno deciso di prolungare il taglio alla produzione di petrolio: Riad continuerà a produrre fino a Dicembre almeno 1 milione di barili di petrolio in meno al giorno, mentre Mosca taglierà la produzione di altri 300mila barili al giorno sempre fino a Dicembre di quest'anno. La stessa agenzia americana Bloomberg non ha potuto fare a meno di notare come l'autput di petrolio giornaliero del Regno Saudita sia di “appena” nove milioni di barili, il più basso da molti anni a questa parte. Segno evidente – sostengono molti analisti – che Riad ha bisogno di prezzi di petrolio molto elevati. E come era ampiamente atteso dopo queste notizie il prezzo dei petrolio Brent (dunque quello scambiato in Europa) è salito fino a  95 dollari al barile, assestandosi per ora a oltre i 92 dollari. Ancora peggio è andata per il greggio di marca Arab Light esportato dall'Arabia Saudita con destinazione Europa che è salito venerdì fin sopra i 100 dollari al barile sempre secondo i dati di Bloomberg. Il petrolio Arab Light destinato all'Asia è in vendita invece a 99,7 dollari al barile; mentre per la destinazione Usa si mantiene più basso (si fa per dire) a 96.9 dollari al barile. Prezzi che come si può facilmente intuire fanno temere a tutti gli analisti una recrudescenza dell'inflazione; fenomeno finora solo parzialmente domato in occidente, peraltro al prezo di aumentare il costo del danaro a livelli abnormi che stanno strozzando la crescita sia in USA che in Europa.


Figura 1: Prezzo del petrolio “Arab Light” (fonte: Bloomberg)


Ma il vero colpo d'obice che rischia di danneggiare irreparabilmente l'economia occidentale, ed in particolare europea, è arrivato giovedì da Mosca: il Cremlino ha infatti annunciato il divieto di esportazione del diesel e della benzina eccetto che per Armenia, Kazakistan,  Bielorussia e Kirghisistan. Per comprendere l'importanza di queste produzioni per l'Europa basta ricordare che  stando ai dati della stessa Commissione Europea del 2020 - dunque appena prima dello scoppio della guerra - la Russia forniva circa il 29% dell’import di petrolio e derivati, mentre per quel che riguarda il diesel (stando a dati citati da politico.eu) pesava per più della metà delle importazioni europee e per circa il 10% della sua domanda totale. Immediatamente dopo la divulgazione dell'annuncio del Cremlino, infatti, i prezzi europei del gasolio sono cresciuti di quasi il 5 per cento, sopra i 1010 dollari a tonnellata. In altre parole per citare Sergio Giraldo su La Verità di domenica, possiamo scordarci il prezzo del diesel sotto i due euro al litro. E per come umilmente la vede lo scrivente, Giraldo c'è andato anche molto sul leggero.

Ciò che più di tutto colpisce della decisione russa è che la scelta sembra più che dettata da questioni di ordine economico da vere e proprie questioni geopolitiche. Non pare azzardato parlare di uso dell'export di carburante come un'arma contro l'Europa. Sia chiaro, certamente i paesi europei non possono di certo lamentarsi visto che ormai sostengono con quasi ogni sorta di aiuto (sia militare che finanziario) il governo fantoccio di Kiev nella sua folle lotta contro la Russia. Presto o tardi, l'uso di armi ibride contro l'economia europea era da mettere in conto; era solo da capire quali. Il Cremlino ha scelto l'energia, certamente lo strumento più efficace e capace di incidere pesantemente sull'economia europea, sulle tasche dei suoi cittadini e soprattutto sull'inflazione che rischia una nuova grande e pericolosa fiammata.

Anche il Financial Times (1) ha peraltro fatto propria questa idea con l'analista Henning Gloystein che ha parlato, dalle colonne del giornale, di arma politica usata da Putin.

Quello che ci attende sarà probabilmente un lungo, freddo inverno.

 

 

(1) Financial Times, Russia puts squeeze on oil market with diesel export ban, 23 Settembre 2023. Link: https://www.ft.com/content/5f07bec3-c219-4223-a4ab-7597c1a87e26

 

 

 

Giuseppe Masala

Giuseppe Masala

Giuseppe  Masala, nasce in Sardegna nel 25 Avanti Google, si laurea in economia e  si specializza in "finanza etica". Coltiva due passioni, il linguaggio  Python e la  Letteratura.  Ha pubblicato il romanzo (che nelle sue ambizioni dovrebbe  essere il primo di una trilogia), "Una semplice formalità" vincitore  della terza edizione del premio letterario "Città di Dolianova" e  pubblicato anche in Francia con il titolo "Une simple formalité" e un  racconto "Therachia, breve storia di una parola infame" pubblicato in  una raccolta da Historica Edizioni. Si dichiara cybermarxista ma come  Leonardo Sciascia crede che "Non c’è fuga, da Dio; non è possibile.  L’esodo da Dio è una marcia verso Dio”.

 

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